Attualità

Incontro con l’imbalsamatore

Tra carcasse di animali e attrezzi di laboratorio, cosa succede quando uno scrittore verifica di persona la materia immaginata e raccontata in un romanzo.

di Gabriele Di Fronzo

1.

Dopo un mese e mezzo che il mio romanzo è in libreria, mi contatta un uomo che dice di essere un tassidermista, ha letto Il grande animale e vuole conoscermi. Visto che da lì a grossomodo un mese sarò nella sua città, Padova, per un festival di letteratura dedicato agli scrittori esordienti, ci mettiamo già d’accordo: passerò a trovarlo nel suo laboratorio. Lui pretende di conoscere me e io credo di voler conoscere lui. Il protagonista del mio romanzo è un tassidermista.

 

2.

Viene a presentarsi dieci minuti prima del mio incontro sul sagrato del Duomo. Ha quarantadue anni, ma ne dimostra almeno cinque di meno, e so quanto gli piacerà leggere questa piccola osservazione. Ha i capelli biondi, lunghi oltre le spalle, che virano al riccio sin dopo l’attaccatura e al grigio dalla metà in giù, e so quanto gli dispiacerà quest’ultima notazione. La barba chiara, gli occhi azzurri e porta un jeans nero attillato, una camicia stazzonata con artificiosa noncuranza e una giacchetta di pelle nera. Assomiglia a Karl Ove Knausgård. Alla fine dell’incontro fa un cenno al ragazzo che gestisce il microfono e mi domanda cosa sia esattamente “il grande animale” del titolo.

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3.

Il laboratorio di un tassidermista è un’arca che ragionevolmente si fa bastare un solo esemplare per ciascun animale. Grazie alla sua tecnica ogni singolo animale ha l’eternità senza affaticarsi a trovare un partner per procreare. La sua arca a metà è a dieci minuti in macchina dal centro storico di Padova, vi si accede da una saracinesca e si chiama Animal Factor Studio: quattro spazi di otto, dieci, sei e cinque metri quadrati, stracolmi di animali in lavorazione o già lavorati, strumenti e materiali adatti a tutta la filiera, partendo dall’incisione fino ad arrivare alla messa in posa, un freezer pieno all’orlo di pelli già conciate e pronte a essere usate, e ancora animali, ovunque, in terra, sui ripiani di certi mobili da farmacia, sulle mensole, sui tavoli, dappertutto. Come  sono sparsi i libri nelle case di chi legge molto. C’è una leonessa la cui eleganza si scorcia contro la parete a listelle di legno, un cane che il proprietario verrà a ritirare in settimana, un numero che si fa fatica a contare di piccoli volatili e recipienti di vetro in cui, uno per ciascuno, da sotto l’alcol traluce un voluminoso intestino di tigre. Nella stanzina più piccola ha un barile con la pelle di una testa di maiale che si sta pulendo in una soluzione di acqua distillata. Scrivessi che fa un cattivo odore, che vien su un puzzo insopportabile, che la vista sia orrorifica, lo farei con il solo intento di far della scena.

 

4.

Prima di arrivare a questo mestiere se l’è cavata nei modi più disparati, mi dice. Ha impiegato dieci anni a completare il percorso di studio delle superiori, ma già mentre seguiva i corsi serali lavorava in una fabbrica di argento, faceva il fruttivendolo, il pizzaiolo, il magazziniere nell’aeronautica, di notte negli ospedali per un’impresa di pulizie, il militare per due mesi perché poi viene rimandato a casa, è stato anche allievo al conservatorio per due anni. Le mani, spesso, le mani. A ventisei anni, poi, si è iscritto all’Università di Scienze Naturali di Padova. Ed è qui che inizia la sua carriera di tassidermista perché mentre studia e fa il volontario al Museo Universitario di Zoologia trova casualmente lo scheletro di un elefante, dimenticato su un bancale in un magazzino. Scopre che sono le ossa dell’elefante ucciso a cannonate nella chiesa di Venezia dove si era rifugiato dopo aver dato in escandescenze nel carnevale del 1819. Dato il suo peso il pavimento crollò e l’elefante s’incastrò nel sepolcro che c’era appena sotto l’edificio. Per ammazzarlo non bastò il primo colpo di cannone, ce ne volle un secondo. Il tassidermista dedica all’elefante la sua tesi di laurea e con questa vince il premio conferito ogni anno dall’Accademia delle Scienze a Roma. Il suo grande animale sta prima di ogni altro, e nel suo ventre cavo li contiene tutti.

 

5.

Quando entra in servizio nella Villa Baciocchi di Capannoli, un piccolo paese nella provincia di Volterra, riceve il compito di imbalsamare un muflone corso. Lavora al pianoterra, a un giro di scale dai sotterranei e dalle segrete. È un esemplare adulto, ha corna a virgola imperiose ed essendo morto nella stagione invernale il suo pelo è grigio scuro (fosse successo d’estate il muflone sarebbe per sempre rossiccio): si tratta del primo animale commissionatogli per lavoro e il tassidermista vi si affeziona, non potrebbe essere altrimenti. In segreto lo porta, quindi, a casa e telefona al committente comunicandogli che gli è marcita la pelle, si rammarica, ma non c’è nulla oramai che possa essere fatto per recuperarla, è da buttare. Adesso a casa sua, sulla parete del salotto in cima alla libreria, sbuca una testa di muflone corso. È questo l’unico elemento in cui s’interseca la sua vita professionale e quella privata: sangue e interiora, lo dice senza che io gli abbia chiesto nulla, stanno fuori dalla casa.

 

6.

Ho l’impulso di chiedergli di mettersi a lavorare al cavallo che sta imbalsamando per la sua mostra di tassidermia artistica dell’autunno a venire. Io uscirei dal laboratorio, mi facesse appena la cortesia di non tirare giù per intero la saracinesca.

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7.

Racconta con il giusto orgoglio la sua esperienza in Spagna. Ha vissuto lì quattro anni e da solo, capisco che ci tiene a dire da solo, si è occupato del restauro delle collezioni storiche del Museo di Scienze Naturali di Granada. Si era conquistato la fiducia del direttore che per prova gli aveva fatto mettere la mani su uno scheletro di merluzzo e su una testa di toro risalente al Settecento. Mentre mi descrive la sorvegliatezza con cui occorre toccare un reperto tanto antico, vedo che sotto il tavolo a fianco al quale stiamo parlando c’è un cane nero di taglia media, il capo rivolto verso chi lo guarda, è dentro una busta di nylon. Uno dei suoi ultimi lavori. Chi glielo ha commissionato ha voluto, oltre che l’animale imbalsamato, il suo cuore in un’ampolla di cristallo e un barile con tutti i suoi organi. Si è dimenticato, dice, che a Granada gli avevano assegnato Moises e Domingo, due tuttofare, che usava come maestranze quando ne aveva bisogno. Non ero proprio da solo come altrove, ammette. Quel che dovrei ammettere io adesso è che non sto pensando affatto alla Spagna, a Moises e Domingo, ma al barile con l’alcol e la formalina, e soprattutto a quale scarica affettiva proverà il proprietario del cane quando, contravvenendo alla raccomandazione del tassidermista, ne alzerà il coperchio.

 

8.

Mentre sono con lui nel laboratorio, mi viene fatto di chiedermi se io abbia la coscienza a posto. Fin qui stimavo di essermi adoperato abbastanza per aver conseguito la giusta cognizione di causa per scrivere la storia del mio romanzo, ma è probabile mi sbagliassi. Mi sono così tanto informato, ho così tanto studiato, consultato manuali d’imbalsamazione, mi sono tagliato l’occhio nel Museo Regionale di Scienze Naturali della mia città, Torino, a valutare centinaia di preparati montati, per questo credevo di aver conseguito una conoscenza buona per poterne scrivere. Ora però, a una spanna dallo scheletro di puma pitturato di nero e a tre scoiattoli da restaurare, davanti alle ombre di questo branco di bestie, mi sento manchevole. Forse avrei dovuto incontrarlo prima di scrivere il libro, o nell’interregno che ho passato tra la prima e la seconda stesura, così che avrei potuto calmierare l’istinto del narratore a seconda della verosimiglianza. Invece l’ho incontrato solo adesso, ora che il libro è oramai già stato licenziato e persino letto da qualcuno. Il mio, dunque, è un incontro posticipato, troppo in ritardo. Se avvenisse altrove, sarebbe inutile. Ma non qui, non nel laboratorio di un tassidermista, dove tutto è postumo, dove quasi tutto ha rimedio.

 

9.

Non sapevo che chi viene qui porta sempre con sé le fotografie dell’animale. Lui ne chiede quante più possibili. E che sia acciambellato, su due zampe, intanto che mangiava o correva: poiché il tassidermista lo vede solo da morto, ha l’esigenza di conoscerlo quando ancora era vivo, come stendeva le zampe anteriori nel salto, in che modo reclinava la testa quando gli si andava vicino per dargli da mangiare e come lo faceva quando era per prendersi una carezza. Ammette che i clienti per cui prova più gratitudine sono quelli che alle foto aggiungono del materiale video, filmati più o meno brevi spesso girati con il telefonino, in cui il cane gironzola nel cortile di casa, il gatto pisola sul comodino a fianco al letto matrimoniale o il cavallo allunga la falcata prima di saltare l’ultimo ostacolo della gara. Lui restituisce il favore con la stessa moneta: quando l’animale inizia ad assumere l’aspetto per cui è stato contattato, il tassidermista lo fotografa e manda questi aggiornamenti ai clienti allegando le foto all’interno della conversazione su WhatsApp. State tranquilli, il lavoro sta procedendo secondo le mie e vostre aspettative.

 

10.

Ora aspetta tre cose, si augura possano capitare tutt’e tre entro la fine di quest’anno. Uno. La proiezione al Festival del Cinema di Venezia del film a cui ha partecipato con una mucca semi-mobile, una volpe e un cervo dalla cui pancia escono le budella come lava da un vulcano: la pellicola sarà in concorso e lui, in quanto addetto agli effetti speciali, passeggerà gagliardo sul red carpet. Due. La sua mostra personale di tassidermia artistica che dovrebbe allestire in contemporanea con una delle più grandi esposizioni scientifiche sui dinosauri. Tre. Che muoia il leone anziano del Parco faunistico a metà strada tra Padova e Venezia: quel leone ha dei bellissimi occhi strabici, mi dice e lui già sa che lo imbalsamerà senza tradire quello sguardo sbilenco, smania fin d’ora di fissare quello sguardo strabico per sempre.

 

11.

Viene una mattina in laboratorio una donna, lui ha da poco alzato la serranda e sta a malapena facendosi un caffè. Porta con sé una borsa frigo. La sera prima ha investito una volpe sulla strada provinciale e, contro quanto gli suggeriva il figlio in macchina con lei, ha fatto retromarcia per i pochi metri che la separavano dal cadavere rossastro, è scesa dall’auto e ha caricato l’animale nel bagagliaio. La mattina, come prima cosa da sveglia, ha cercato l’indirizzo di un imbalsamatore. Quando lui prova ad abbracciarla, la donna gli fa cenno di rimanere dov’è perché ha la tuta inzaccherata di sangue. Un anno e mezzo prima di quel giorno, il marito della donna era stato ucciso da un automobilista che non si era fermato per prestargli soccorso.

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12.

Sto per andarmene quando lui pesca Il grande animale dalla libreria sormontata dalla testa di muflone e mi chiede di dedicarglielo. Mentre io apro il libro e lentamente segno la data in alto a destra sul frontespizio, mi dice con un tono autorevole che la pelle di serpente è la cosa al mondo che dia l’odore peggiore, che il bisturi è il re di tutti gli strumenti e che quindi avrei dovuto citarlo molte più volte di quanto non abbia fatto nel romanzo, e che da tempo il poliuretano ha preso il posto di tutti gli altri materiali per conferire la forma all’animale. Mi sta tirando le orecchie per le inesattezze, mi rimprovera, ecco forse perché ha voluto farmi vedere il suo laboratorio, ecco perché ha voluto conoscermi. Io abbasso lo sguardo fingendo di voler ancora scrivere qualcosa, temo che a ragione l’imbalsamatore non stia sorridendo

 

Fotografie di Luca Norbiato.