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Annientamento è un film da vedere

Inizialmente pensato per il cinema, il film di Alex Garland è arrivato ieri su Netflix: più semplice del libro ma più bello di un blockbuster.

di Clara Mazzoleni

Perché mai un film come questo è comparso direttamente su Netflix, senza passare per i cinema? A grandi linee la trama di Annientamento, tratta dal primo libro della Trilogia dell’area X di Jeff VanderMeer (recentemente ripubblicata da Einaudi in un unico volume), sembra fatta apposta per il grande pubblico: un gruppo di studiose (fondamentale: tutte donne, che di questi tempi è importante) si avventura in un luogo chiamato “Il bagliore”, una misteriosa area in costante espansione dove una natura lussureggiante genera strane mutazioni e malattie mostruose, sterminando ogni essere umano che osi addentrarsi nel perimetro. Alla guida del team c’è la biologa e docente universitaria Natalie Portman, il cui marito è morto proprio in seguito a una spedizione nello stesso posto.

Il regista, Alex Garland, ricordato soprattutto per Ex Machina, è anche l’autore del romanzo L’ultima spiaggia, da cui venne tratto The Beach, con Leonardo di Caprio. Diventato un cult per la colonna sonora (la stupenda “Pure Shores” delle All Saints) e le controversie dovute ai problemi con la location (il paradiso incontaminato di Ko Phi Phi Leh, colonizzato dalla troupe), il film era, possiamo dirlo senza troppi dubbi, una schifezza totale. La colpa non è stata di Garland, che ha scritto un libro molto più bello. Come L’ultima spiaggia Ex Machina, film realizzato con un budget ridotto e piaciuto moltissimo, Annientamento si sviluppa attraverso una proliferazione di sfumature psicologiche descritte in maniera non troppo scontata.

Proprio per questo il film è stato, in un secondo momento, ritenuto inadatto per il grande schermo: dopo essere stato distribuito negli Stati Uniti, in Canada e in Cina, si è deciso di renderlo disponibile nel resto del mondo direttamente su Netflix, dove è arrivato a distanza di 17 giorni. L’accordo raggiunto da Paramount e dal servizio di streaming è dovuto a una lotta tra i produttori: dopo uno screening test che pare abbia lasciato gli spettatori un po’ disorientati e confusi, il produttore di Skydance David Ellison ha insistito per modificare alcune scene del film, ritenendo che fosse “troppo intellettuale”. Per nostra fortuna il co-produttore Scott Rudin ha difeso le scelte di Garland e ha fatto in modo che il regista potesse mantenerlo intatto.

L’unico a beneficiare di questo affare è stato Netflix, che in cambio ha coperto metà del budget. Il regista invece ci è rimasto male, e ha ragione. È come se un artista preparasse una serie di opere per una mostra in un grande museo e si trovasse a esporle in una galleria di 10 metri quadri. Le onde di energia cangiante che circondano l’area contaminata, le immagini di cellule al microscopio, la giungla rigogliosa, le muffe dai colori pastello che intaccano le pareti, altri scenari che non cito per evitare spoiler: guardare queste immagini sul pc è quasi una tortura. Garland si è lamentato su Collider: «Non ho alcun problema con il piccolo schermo. Uno dei migliori prodotti che io abbia visto negli ultimi tempi è The Handmaid’s Tale, quindi penso che ci sia un potenziale incredibile in quel contesto, ma se lo fai, lo fai per quel medium e ci pensi in questi termini. (…) Uno dei grandi vantaggi di Netflix è che si rivolge a molte persone e non si ha quella strana cosa del weekend di apertura in cui ti stai chiedendo se qualcuno arriverà. Quindi ha vantaggi e svantaggi, ma dal mio punto di vista e da quello delle persone che l’hanno creato, è stato creato per essere visto su un grande schermo».

Nonostante questo problema, Annihilation riesce a essere un  bel film. La bravura di Natalie Portman nell’accogliere paura e dolore su una faccia così perfetta da sembrare fatta per restare placida e neutra, ha sicuramente un suo peso: lo sappiamo dai tempi del Cigno nero di Darren Aronofsky. L’attrice è capace di ridursi uno straccio e, al tempo stesso, mostrare la disperazione di chi cerca di trattenere le proprie emozioni. Ma sono tanti i punti di forza del film: il cast femminile, con una straordinaria Jennifer Jason Leigh (il suo personaggio, una psicologa glaciale e antipatica, è forse il migliore) e il fatto che si tratti di una spedizione avventurosa che comprende sole donne. Un po’ come coi supereroi di Black Panther, proviamo un’istintiva soddisfazione nel vedere queste ragazze con le tute kaki e le mitragliatrici in mano comportarsi in modo abbastanza naturale, al di fuori degli stereotipi di genere.

Ma il dato sorprendente, per un film di questo tipo, è che è scritto abbastanza bene: i dialoghi sono credibili. La protagonista biologa riesce a parlare di cellule e simili senza cadere nella lezioncina da documentario o, ancora peggio, semplificare troppo le cose. I personaggi comunicano tra loro in un modo che è quasi troppo intimo e naturale per un film di azione/fantascienza/horror. L’atmosfera della storia, poi, è decisamente dark, soprattutto a livello psicologico. Ma al centro c’è soprattutto l’autodistruzione: un annientamento del sé che fa apparire la spedizione in un luogo da dove si sa di non poter ritornare come una specie di metafora. Non a caso si accenna all’autolesionismo, alle dipendenze, alla malattia, al suicidio.

C’è una stranissima forza, subdola, profonda, che dà a chi guarda l’impressione di aver visto un grande film, nonostante il limite del formato e le scene rivoltanti (che forse, mi rendo conto, sono un limite soltanto per me: per molti sono punti in più). Rimane addosso un’inquietudine velenosa e sinistra che conferma la bravura di Alex Garland e, forse, indica una nuova strada per il cinema di genere. Niente più compromessi, pura ricerca della bellezza dell’opera: se poi il grande pubblico resta perplesso, c’è sempre Netflix.