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2016 bastardo

Sta per finire l'anno con più morti celebri, è vero, ma dovremmo smetterla di lamentarci a colpi di tweet: il 2016 sta solo facendo il suo mestiere.

di Francesco Guglieri

Caro 2016, cosa ti abbiamo fatto di male? Perché ti accanisci su di noi, perché non ci lasci in pace? Undici mesi fa il 2016 ha preso in ostaggio il mondo e ha iniziato a fare fuori le nostre celebrità una a una, giorno dopo giorno. Già a gennaio si è capito che tirava una brutta aria, e se eri anche solo mezzo famoso era meglio se iniziavi a guardarti le spalle. Da allora si sono succeduti video commoventi, struggenti playlist, estenuanti gallery, post celebrativi man mano aggiornati con i caduti del mese, in un’escalation che sembra non avere fine. Tutte le settimane i social network si riempiono di status in cui ognuno si affretta a partecipare al lutto collettivo: e se all’inizio sembrava una fatalità, all’ennesima morte “che ha commosso il web” subentra l’incredulità, il senso di ingiustizia cosmica che ti fa alzare il pugno al cielo e twittare: 2016: Worst. Year. EverFinché, qualche giorno fa, un utente di Twitter produce quella che sembra l’immagine definitiva di questo 2016 serial killer: la copertina di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band con tutti i morti celebri dell’anno, da David Bowie a Kenny Baker, l’attore nano dentro R2-D2, il droide cilindrico di Star Wars; da Leonard Cohen alla democrazia americana.

Ma davvero il 2016 è stato il peggior anno di sempre per essere un’anziana celebrità? Ho due risposte. Quella “buona”, diciamo così, è che sì, avete ragione: è davvero un anno nero. Quella cattiva è che la situazione potrà solo peggiorare. Non so come dirvelo ma, ecco, abituatevi all’idea. Premessa: non è in discussione il dispiacere personale. E non lo è perché, letteralmente, non discutibile essendo un’emozione soggettiva e del tutto individuale. Ma è anche una reazione assolutamente comprensibile: quando muore l’autore di opere su cui abbiamo investito tanto dal punto di vista emotivo (la canzone che ci ricorda un amore, il primo film che abbiamo visto da bambini, un libro che ci ha formati) è come se morisse un pezzo del nostro universo interiore. La cultura popolare funziona così, ma in generale ogni opera d’arte è tale proprio perché ci fa credere di essere, in un certo senso, viva, di incarnare delle sensazioni che invece è lo spettatore a proiettarci. Inoltre c’è l’ancor più comprensibile rammarico per una persona “conosciuta” che se n’è andata.

Ricordo ancora quando morì Lucio Battisti. Appresi la notizia al Tg2 della sera: ci furono un paio di servizi, poi si proseguì con le altre news e i programmi previsti, io scesi giù a prendermi una pizza canticchiando “Per una lira”. Era il 1998. Perché all’epoca funzionava così: durante il giorno c’erano solo poche, selezionate, finestre informative. I telegiornali se li guardavamo, i giornali se li leggevamo. Fine, più o meno. Tutto il contrario di oggi, quando siamo immersi costantemente in un flusso informativo in cui news internazionali e fatti personali, notizie di disastri e chat degli amichetti si mescolano insieme.

90th Anniversary Of The Battle Of Gallipoli

Ma è vero che quest’anno muoiono più celebrità che in passato? In effetti sì. Secondo Nick Serpell, obituary editor della Bbc, i coccodrilli pubblicati dal network inglese, solo da gennaio a marzo 2016, sono cinque volte di più dello stesso periodo del 2012. 

grafico bbc

Basta questo per umanizzare il 2016 e accusarlo a colpi di tweet di essere un bastardo senza cuore? Da quello che mi si dice, la gente moriva anche prima del 2016: non ho fatto un adeguato fact-checking ma tendo a crederci. Il punto è che sta iniziando a invecchiare, e quindi a morire, la generazione degli anni Trenta e quella dei baby boomers: quella cioè che ha iniziato a lavorare e produrre negli anni Cinquanta e Sessanta. Gli stessi anni in cui stava nascendo la moderna cultura popolare e i nuovi media di allora, a cominciare dalla televisione e dall’industria discografica, imponevano nuovi personaggi e nuove forme di consumo. Quindi: a) per il boom demografico del dopoguerra ci sono più persone che adesso sono anziane, e b) nuovi mezzi di informazione hanno creato più divi. Un tempo era solo il cinema a produrre celebrità (senza andare troppo indietro ai tempi dell’opera come consumo popolare. Si pensi cosa furono i funerali di Verdi), poi c’è stata la radio, la televisione, la musica pop, il rock, la pubblicità…

Il 2016 non è cattivo: fa solo il suo mestiere. Eppure perché se la prendono tutti con lui? Perché non basta il numero maggiore di “candidati” alla dipartita a spiegare l’impatto emotivo creato da queste morti a livello globale. Come detto, oggi i social network impongono una «mobilitazione totale» (per usare il titolo del libro di Maurizio Ferraris) che amplifica e diffonde questo sentimento di cordoglio: le finestre informative adesso sono delle enormi vetrate spalancate 24 ore su 24. Il web è uno strumento nato al Cern per scambiarsi informazioni che oggi viene usato da due miliardi e passa di persone ogni giorno per scambiarsi delle emozioni. Non è detto che questo sia un male, anzi, ha anche un che di, beh, emozionante e grandiosamente visionario. Almeno finché non vi ricordate i risultati delle ultime elezioni (di qualsiasi elezione) e di dove la gente tende a informarsi.

morti 2016

Insomma, se i vostri idoli sono ultraottantenni il rischio che muoiano un po’ c’è. Ma la mia impressione è che questa martellante, quotidiana celebrazione del caro estinto dica qualcosa di più. Produce una diffusa sensazione funerea, come se si fosse sempre a lutto per qualcosa, come se fosse sempre finito qualcosa di irripetibile. Qual è la prima cosa che si fa quando muore, poniamo, un cantante? Si va su YouTube o Spotify e se ne condividono le canzoni. O quando muore un attore si spargono clip o gif. L’ho già scritto in un’altra occasione: viviamo nell’epoca degli archivi, in cui tutto il repertorio del recente passato è a portata di mano, costantemente disponibile. Ma questo vuole anche dire che è costantemente presente, che incombe in ogni momento con la sua vastità infinita, con tutto il suo perturbante ingombro. Questa presenza schiacciante e ossessiva della storia digitalizzata impedisce di lasciarsela davvero alle spalle. E ogni giorno diventa il giorno della memoria di qualcosa. Ricordati di ricordare.

Che è bellissimo e sacrosanto, ma a forza di ricordare così tanto resta poco tempo per pensare e creare, temo. Davvero non si sta creando qualcosa di nuovo e di bello oggi, in questo momento, da qualche parte di questo vasto e mai così ricco mondo, per cui entusiasmarsi? Davvero non c’è qualcosa di inaudito, qualcosa di larvale, qualcosa di eccitante per cui appassionarsi invece che soltanto piangere per il passato perduto? Che va bene quando sei della generazione di Gino Castaldo e quindi con la morte di Cohen o il Nobel a Dylan piangi o celebri la tua giovinezza, ma vederlo fare a un trentenne fa un po’ impressione: è come se ti dicesse che a rappresentarlo davvero è il cantore della generazione di suo padre.

Siamo condannati a morire conservatori, proprio nel senso di conservatori museali?