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La prima volta che ho visto San Patrignano ero in astinenza

Cosa vuol dire guardare SanPa, la nuova serie di Netflix, per chi è stato in un'altra comunità.

di Clara Mazzoleni

«Quella è San Patrignano, la comunità: vedete quanto è grande? È come una piccola città. Se entrate lì dentro, state sicuri che non uscite più». Ero in macchina con il mio fidanzato e suo zio: seduta dietro, cercavo di guardare il paesaggio dal finestrino senza fare troppo caso all’odore terribile emanato dalla mia stessa pelle. La sera prima, in stazione a Rimini, un ragazzo ci aveva rifilato della roba scadente, tagliatissima, quasi inutile: a poche ore di distanza stavamo già male. Ci drogavamo ormai da due anni. Eravamo venuti a Rimini, ospiti da suo zio, col desiderio di prenderci una pausa da Milano: cambiare aria, passeggiare in riva al mare. Dopo poche ore, ovviamente, eravamo già in stazione in cerca di una busta. La nostra missione era stata un mezzo fallimento, e guardando San Patrignano dal finestrino della macchina ferma – lo zio si era fermato apposta, per farcela osservare: si espandeva sulla collina come una minaccia – mi sentivo pervasa da un’emozione strana, di paura e speranza: per la prima volta nella mia mente si faceva spazio l’idea di una soluzione drastica che non avevo ancora avuto il coraggio di considerare, l’ipotesi della comunità. Mi accorsi che ero davvero stanca, che non ne potevo più. Tutti i tentativi di smettere (il Sert, gli isolamenti volontari, l’alcool e tutto il resto) si erano rivelati inutili. Avrei voluto dire allo zio di portarci subito là, di salvarci, invece di minacciarci che, se non ci fossimo dati una regolata, saremmo finiti lassù. Avrei voluto dirgli che era folle, da parte sua e di tutti gli altri, pretendere che riuscissimo a “regolarci” con l’aiuto moscio del Sert. Ma in realtà non dissi niente, e continuai a fingere: quando i miei genitori decisero di intervenire con le maniere forti, era passato un altro anno.

San Patrignano non era stata considerata un’opzione: oltre alla pessima reputazione e alla famosa (infinita) lista d’attesa, spaventava. Tutti ripetevano la stessa cosa: se entravi lì dentro rischiavi di restarci per sempre. La piccola comunità privata in provincia di Varese dove mi inviarono i miei era l’esatto opposto: al posto dell’“iniezione di amore” di cui parla Vincenzo Muccioli in una scena di SanPa, presentandola come “l’unica cura utilizzata”, mi fecero una bella iniezione di non so cosa (posso assicurare che non era amore) che mi fece dormire per quattro giorni. Poi mi svegliarono, e iniziarono a rivoltarmi come un calzino nella mente e nel corpo, con evidente fretta di ributtarmi nel mondo reale. Psicoterapia individuale e di gruppo ogni giorno per mesi e mesi, psicofarmaci in grosse quantità e varietà, arte-terapia, test delle urine, divieto totale di assumere alcolici, attività fisica e lavori vari obbligatori, e nel giro di un anno ero già in pista, pronta a laurearmi come se niente fosse. A parte un bel po’ di decine di migliaia di euro in meno sul conto dei miei e gli psicofarmaci che avrei continuato a prendere per tutta la vita.

Prevedibilmente, SanPa – Luci e Tenebre di San Patrignano, la serie di Gianluca Neri scritta con Carlo Gabardini e Paolo Bernardelli e diretta da Cosima Spender, inizia con un cucchiaio e un accendino. Guardo il vapore che sale e sento una stretta allo stomaco. Dieci anni anni dopo, è ancora così. Chi ha provato l’eroina e se n’è innamorato, diventandone dipendente (conosco persone che non lo sono diventate, pur facendone uso di tanto in tanto) arriva a comprendere la segregazione: se conosci quella spinta invincibile, disarmante, ingestibile, puoi perfino arrivare a pensare che le catene non siano una soluzione poi così assurda. Puoi immaginare di chiedere a qualcuno di fermarti, quando verrà il momento, a qualsiasi costo. Proprio come sostiene Muccioli nella prima puntata: lui ha soltanto fatto quello che i tossici gli chiedevano. Erano loro a pregarlo di non farli uscire. Ma se delle persone si affidano completamente a te, dovresti per prima cosa fissare dei limiti al tuo potere d’azione: se non lo fai, rischi di travolgerli e dominarli, privandoli della capacità di esistere da soli. Quanto male puoi fare in nome del bene? La serie ruota intorno a questo dilemma: chi era davvero Vincenzo Muccioli? Quasi un santo o quasi un assassino? La comunità di San Patrignano si è fortemente dissociata, definendo SanPa parziale nell’intenzione di evidenziare le oscurità (anche a causa del grande risalto dato a Walter Delogu, ancora considerato dagli adepti del leader il traditore zero). Altri l’hanno criticata ritenendola al contrario troppo morbida nei confronti di Muccioli, che avrebbe meritato un trattamento più severo e una presa di posizione decisa. La maggior parte delle persone ha lodato la capacità di SanPa non prendere una posizione decisa, invece, e stimolare il ragionamento offrendo punti di vista discordanti.

Dopo aver visto il filmato con la madre che piange nel primo episodio, ho spento. Non avrei riacceso, qualche ora dopo, se non mi fossi resa conto che la serie avrebbe continuato a perseguitarmi ovunque. Persone che non sentivo da mesi mi scrivevano chiedendomi se avevo visto SanPa, aprendo i social non vedevo altro che riflessioni e discussioni su SanPa: chi postava su Facebook una recensione lunga il triplo di questo articolo, chi confrontava ciò che viene raccontato nella serie con l’esperienza del cugino di un amico di suo zio paragonandola a quel racconto di un suo compagno di classe delle medie, chi si sforzava di partorire un tweet con una posizione così laterale, o estrema e diversa dalle altre da permettergli di fermare per un attimo un dibattito che altrimenti proseguiva benissimo senza di lui, chi lodava i look che si intravedono nei filmati d’archivio e la bellezza di Delogu da giovane (mi aggrego a questo gruppo), chi diceva di aver cambiato opinione sui tossici (buongiorno!), chi si ricordava di detestare non solo Muccioli ma anche i suoi sostenitori, chi si stupiva della bravura con cui i creatori e i montatori e tutte le persone che hanno lavorato alla serie sono riusciti a dare forma a un prodotto così potente. Incredibilmente privo dei soliti odiosi luoghi comuni sui tossici (forse perché, per una volta, vivaddio!, sono loro raccontare le loro storie: su tutti spicca Fabio Cantelli Anibaldi, ex ospite ed ex addetto stampa di San Patrignano, tagliente, lucidissimo, illuminante), furbo quanto basta per tenerti incollato allo schermo (certe scene – le catene che strisciano nelle cantine buie, i flash con il sangue e la carne nella macelleria – mi hanno ricordato certi momenti imbarazzanti di Veleno: ma ci vogliono anche quelli se vuoi tenere alta la tensione), ricchissimo di materiali d’archivio selezionati e montati ad arte, capace di attirare l’attenzione, ancora una volta – l’ennesima – sulla figura enigmatica, archetipica e spaventosa di Vincenzo Muccioli, un uomo larger than life, enorme non solo nella stazza, ma nella sua capacità di riassumere in un’unica individualità una quantità incredibilmente vasta e insolubile di tensioni, problemi e interrogativi che la stessa serie indica chiaramente attraverso le testimonianze delle persone che hanno vissuto l’esperienza di San Patrignano e di coloro che hanno contribuito a crearne il racconto mediatico, giudiziario, politico.

Chi ricorda bene tutta la storia non potrà fare a meno di osservarla con sguardo più attento, altri non la conoscevano nemmeno: in pochi giorni SanPa si è diffusa come un’epidemia. Un entusiasmo scatenato, sicuramente, dalla qualità della serie, ma anche dal fatto che l’esistenza di San Patrignano è un rompicapo, e perfino i detrattori più convinti non possono chiudere gli occhi davanti alle migliaia di vite che la comunità ha salvato e dell’assenza totale dello Stato nel momento in cui è nata. Uno Stato che ad oggi, dopo decine di anni, non è ancora riuscito a formulare alternative del tutto soddisfacenti. Io, bianca e benestante, ho avuto la fortuna di potermi rivolgere a una costosissima comunità privata. Il mio fidanzato di allora, non bianco e non benestante, è finito in carcere.

Per fortuna l’eroina è passata di moda. Se un’ondata come quella degli anni ‘70 dovesse tornare, oggi, saremmo pronti ad accogliere e aiutare una tale quantità di tossici? Probabilmente no. L’abbiamo dimostrato con il Coronavirus: non sappiamo gestire le nuove epidemie, ma almeno possiamo sperare di imparare in fretta. L’esperienza di San Patrignano insegna che trovare la cura o il vaccino per certe malattie, purtroppo, è molto difficile, forse impossibile (perché la tossicodipendenza è una malattia, al contrario di quanto sosteneva il giudice Roberto Sapio, pm nel Processo delle catene). Qual è il metodo ideale per curare un eroinomane? O meglio: qual è il metodo ideale per curare un eroinomane che non possiede il denaro necessario per pagare delle cure costosissime? Il deciso rifiuto da parte di San Patrignano di riconoscersi nella serie ci dice che forse il modo perfetto per raccontare una storia così difficile non esiste, soprattutto perché un modo al cento per cento efficace, duraturo, delicato e gratuito di salvare i ragazzi e le ragazze dall’eroina non è ancora stato trovato. Guardare SanPa, allora, potrebbe funzionare come un rito collettivo, un rito catartico per liberarsi della presenza ingombrante di Vincenzo Muccioli, una volta per tutte, e ripartire da qui. Perché lui non c’è più, ma i drogati e le loro famiglie continuano a esistere, e hanno bisogno di alternative migliori.