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Il nuovo realismo magico di Samanta Schweblin

Definita "geniale" dal New Yorker, l'autrice argentina è appena uscita in Italia con la raccolta Sette case vuote.

di Paola Moretti

Nominata all’International Booker Prize due volte, vincitrice dei più importanti premi letterari, Vargas Llosa la considerava, al suo esordio, tra le voci più promettenti del panorama ispanofono. E ancora: definita “un genio” dal New Yorker, Granta nel 2010 l’ha annoverata tra i 22 migliori autori in lingua spagnola Under 35, i suoi libri sono stati tradotti in 25 paesi e in Italia torna ora a inquietarci con una raccolta di racconti: Sette case vuote, edito da Sur nella traduzione di Maria Nicola. Samanta Schweblin è nata a Buenos Aires nel 1978, da otto anni vive a Berlino. Nella capitale tedesca ci è arrivata con una borsa di studio e da allora non se ne è più andata. Qui scrive, tiene seminari e corsi di scrittura creativa presso varie istituzioni, tra cui l’Istituto Cervantes e la Freie Universität.

In un’intervista al festival di letteratura e traduzione Babel, che si è tenuto l’anno scorso a Bellinzona, Schweblin si racconta così: «Mi interessa la relazione tra potere e linguaggio, tutte quelle volte che il linguaggio non fa esattamente ciò che vorremmo, anzi a volte fa perfino il contrario. E fino a che punto il linguaggio è un mostro gigante impossibile da domare. Non è mai esattamente ciò che uno vorrebbe che sia e fa soffrire. Mi ha fatto soffrire tutta la vita questo rumore che c’è tra quello che vorrei dire e quello che riesco a dire davvero. Chi sa, forse è il motivo per cui sono diventata scrittrice».

Ancora una volta, infatti, al centro della narrativa di Samanta Schweblin c’è la comunicazione, o meglio, la sua assenza. Ogni racconto di Sette case vuote è costruito attorno a un non-detto che si fa motore della narrazione e determina il comportamento dei personaggi. È invariabilmente il mancato scambio di informazioni a generare la tensione che pervade tutte le storie. In “Niente di tutto questo” la figlia di una donna anziana cerca di capire i motivi che spingono sua madre a guardare e invadere case altrui. In “Sempre così in questa casa” una donna prova a trovare qualcosa di risolutivo da dire al vicino che ha perso da poco il figlio. In “Un uomo sfortunato” una bambina vuole sapere come si chiama l’uomo che l’ha portata al centro commerciale e che afferma di non poter pronunciare il proprio nome. In “Uscire” marito e moglie sono a casa insieme e quando lei dovrebbe dire ciò che la turba, prende ed esce nel pieno della notte. È colpa di una donna che non ha avvisato la polizia, in “Respiro cavernoso”, se un ragazzino è morto. Mentre in “I miei genitori e i miei figli” un uomo avrebbe potuto tranquillizzare la sua ex-moglie se solo gli avesse detto di aver visto i bambini insieme ai nonni.

Ricorrenti sono gli scatoloni, i sacchi, il motivo del riordinare, liberarsi del superfluo, immagazzinare. La madre in lutto vuole buttare i vestiti del figlio scomparso. L’anziana che aspetta la morte vuole mettere via i suoi averi mentre è ancora in vita. La donna rientrata a Buenos Aires dopo il trasferimento in Spagna non sa più dove sono le scatole con le sue cose. Gli oggetti banali, che vediamo tutti i giorni, sono gli oggetti di scena che arredano i racconti: zuccheriere, asciugamani, pezzi di carta, mutande; applicando alla perfezione il conio freudiano, Schweblin intesse l’inquietudine con la quotidianità. Infatti, l’unheimlich (da un- privativo e Heim- casa, rifugio) di Freud, come dice Fisher nell’introduzione al suo libro The Weird and the Eerie, «riguarda lo strano all’interno del familiare, lo stranamente familiare, il familiare come strano — il modo in cui il mondo non coincide con sé stesso». È proprio l’autrice a dire, in un’intervista per la radio tedesca, che a incuriosirla particolarmente è il significato di “normalità”: che cosa significa davvero al di là del suo costrutto sociale: «Mi stuzzica l’idea di distruggere la “normalità”».

 

Le case a cui si fa riferimento nel titolo della raccolta sono l’ambientazione di tutti e sette i racconti, che cominciano in abitazioni che si lasciano, che si svuotano, che non appartengono. La dimensione domestica, presente qui così come nel successivo Kentuki (anche se in Italia l’ordine di pubblicazione è stato invertito), non è mai associata a un’idea di accoglienza e confort; al contrario, si rivela sempre il teatro del dramma, il luogo del disagio, l’incubatrice del male. Nella connotazione inquietante che acquisisce il focolare ritroviamo echi della scrittrice americana Shirley Jackson a cui è stato dedicato l’omonimo premio – il Shirley Jackson Award – vinto da Schweblin con il romanzo Distanza di sicurezza, precedente di un anno a questa raccolta. Sebbene l’idea di una casa matrigna risuoni con noi lettori pandemici tanto da sembrare che i racconti siano frutto di questi lunghi mesi di reclusione, Sette case vuote invece è stato pubblicato per la prima volta nel 2015.

In merito al genere Schweblin afferma che nella letteratura non le interessa né il realismo né il fantastico: «trovo più intrigante quello che c’è in mezzo». E, in linea con la tradizione letteraria latinoamericana, la forma del racconto sembra essere quella che le è più congeniale: «Mi piace l’attenzione e la tensione che richiedono i racconti», poi aggiunge, «Non mi piace invece quando il lettore ha tempo per distrarsi, per interessarsi ad altre cose. Deve restare con me. Lo voglio intrappolare nel mio libro», in un’intervista per il Berliner-Zeitung.

Ci riesce benissimo in Distanza di sicurezza, dove la protagonista Amanda è in un letto di ospedale e David, il figlio di una sua amica, con domande e frasi propedeutiche l’aiuta a ricordare cosa è successo nella casa in campagna che aveva affittato per l’estate. Anche qui Schweblin struttura il romanzo attorno a un dato mancante e tiene l’attenzione dei lettori costantemente alta con uno stratagemma semplice quanto efficace, posticipare continuamente la risposta all’unica domanda che conta: che fine ha fatto Nina, la figlia di Amanda? Nonostante sia la sola informazione che alla voce narrante interessa davvero recuperare, David obbliga Amanda a ricostruire l’intera storia ripercorrendo i suoi ricordi confusi in un disturbante botta e risposta che evoca una seduta tra ipnoterapeuta e paziente. È così che scopriamo che David stava morendo avvelenato dalle acque del fiume vicino alla casa e sua madre, per salvarlo, ha dovuto sottoporlo a un rito di trasmigrazione.

Distanza di sicurezza rivisita il topos del bambino scambiato e pone al suo centro una questione fondamentale: quanto ci curiamo di ciò che amiamo? Riferendosi non solo al benessere immediato delle creature che generiamo, ma anche all’ambiente in cui vivranno crescendo.

Anche Kentuki si preoccupa di una questione molto contemporanea come è la relazione che gli individui hanno con la tecnologia. Usando il dispositivo narrativo del Kentuki, un simil-furby gestito da remoto via internet dotato di telecamera e microfono, l’autrice indaga come si trasforma la comunicazione mediata da apparecchi e social network. Uomini e donne, giovani e anziani da tutto il mondo entrano in contatto attraverso questo smart-toy e l’unica cosa che possono scegliere è se guardare o essere guardati. Kentuki, nella sua semplicità, si presta a vari livelli di lettura che invitano alla riflessione sia su un piano esistenziale che su un piano letterario. Il voyeurismo come perno delle relazioni virtuali così come fondamento dell’attività di scrittrice. Essere o apparire? Un romanzo intriso di tecnologia oggi è considerato realistico o è ancora science-fiction?

Samanta Schweblin non manca di toccare argomenti caldi della nostra esistenza e della nostra attività letteraria nel XXI secolo, e lo fa partendo dai suoi nuclei principali di interesse: gli equilibri di potere e il linguaggio. E benché i temi e le ambientazioni dei suoi scritti cambino, torna a chiedersi sempre: noi umani come facciamo a comunicare, come facciamo a capirci davvero?