Stili di vita | Dal numero

La nuova vita dei libri di cucina

Dalla Bibbia dei ricettari italiani di Pellegrino Artusi al panorama completamente ridisegnato degli ultimi anni, in cui la cucina è solo uno degli ingredienti.

di Davide Coppo

Che l’Italia fosse un Paese sì di cuochi ma non certo di lettori lo si poteva capire già alla fine dell’Ottocento, quando Pellegrino Artusi, autore dell’oggi famosissimo La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene non trovò nessun editore disposto a pubblicare quello che sarebbe poi diventato la Bibbia dei ricettari italiani, e dovette pagare di tasca propria l’uscita del volumone. Fortunatamente per Artusi, che morì poi nel 1911, le vendite dell’opera decollarono comunque, e oggi si stimano in milioni di copie, anche se, proprio come con la Bibbia, sono in pochi quelli che l’hanno letto davvero. A leggerlo, d’altra parte, non se ne guadagna granché in termini culinari: non ci sono dosi, né tempi, e le indicazioni sulla rosolatura di un fagiano con cui fare poi un pasticcio sono del tipo: «Cotta che sia questa roba, levatela asciutta e mettetela in un mortaio».

Sono cresciuto in una famiglia in cui la cucina era una cosa piuttosto importante, ma non si faceva un grande uso di libri di cucina. I pochi che c’erano erano ricettari impaginati banalmente, con le copertine barocche tipiche degli anni Ottanta e Novanta, rovinati dagli anni. Nell’ultimo decennio del secolo scorso, come reazione all’esplosione di fast food e cibi precotti, diventarono di gran voga i libri sulla cucina dietetica. Il più venduto di tutti gli anni Novanta (ancora oggi, secondo Amazon) è In the Kitchen with Rosie di Rosie Daley, aiutato dal sottotitolo «Le ricette preferite di Oprah»: soltanto nel 1994, anno della pubblicazione, vendette qualcosa come 6 milioni di copie. Un altro titolo alla moda nello stesso decennio e best seller milionario è Butter Busters di Pam Mycoskie, che si auto-pubblicò come l’Artusi nel 1992. Erano gli anni della guerra senza quartiere ai grassi e al sale, una cavalleria anti-scientifica che precedette di qualche anno il movimento no-vax ma che riuscì a fare danni che sono tangibili ancora oggi nella mitologia popolare, resistenti come le paure per i capelli bagnati d’inverno, il terrore dei colpi d’aria.

Il panorama dei libri di cucina, negli ultimi anni, è stato completamente ridisegnato. Non si è ridotto, come si sarebbe potuto temere con la diffusione oleosa di internet dei primi anni Zero, ma è anzi cresciuto e ha preso nuove forme che rendono difficile e incompleto, a volte, parlare di semplici “libri di cucina”. Da un lato, il cibo è esploso (anche) su internet, e in diversi modi: su Instagram, spogliato da ogni significato che non la pura estetica, in quello che potremmo definire “filone #foodporn”; sulle piattaforme di streaming come Netflix, in serie tv che affrontano la cucina e la trasformazione degli ingredienti da ogni punto di vista conosciuto; su YouTube, nei tutorial per semplici procedimenti (pulire le vongole, i carciofi, i fichi d’india) o in chef casalinghi improvvisati in ricette passo per passo; su innumerevoli siti di ricette e sezioni dedicate al cibo dei maggiori network o editori – l’indispensabile Eater, del gruppo Vox Media, Epicurious di Condé Nast, la praticamente perfetta sezione Cooking del New York Times, mentre in Italia GialloZafferano, decisamente più popolare, funzionava così bene che nel 2017 ha deciso di lanciare una versione cartacea.

Un capitolo dedicato alle alici impanate nel libro di Rachel Roddy, Two Kitchens, pubblicato nel 2017

A cosa servono, allora, i libri? A tenere insieme tutti questi mondi, si potrebbe rispondere per farla breve. Michael Pollan nota, nell’introduzione a Cotto, opera del 2013, del bizzarro rapporto tra il tempo sempre più ridotto passato in media a cucinare dalla popolazione occidentale e l’aumento vertiginoso dell’attenzione data al cibo da guardare in tv, leggere, cucinare. I libri di cucina contemporanea funzionano perché hanno saputo (sanno) stare in equilibrio su questo paradosso: riescono a essere belli esteticamente, nell’impaginazione e nella presentazione fotografica, e allo stesso tempo così ricchi di informazioni, oltre la semplice ricetta, che si fanno leggere come un piacevole testo di divulgazione.

Uno dei migliori esempi di questa doppia e nuova anima, e uno dei libri più di successo degli ultimi anni, è The Noma Guide to Fermentation, il manuale di René Redzepi e David Zilber per la fermentazione di frutta e verdura, per la creazione di diversi tipi di kombucha, aceto, miso, shoji o garum. Le “ricette” vere e proprie sono poche, se rapportate alle 450 pagine del volume, e produrre del garum in casa non è la cosa più veloce del mondo; ma la vera ricchezza è rappresentata dalle lezioni di chimica sulla trasformazione della materia sotto l’azione dei diversi tipi di batteri.

Ispirazioni, storie, paesaggi, e molta utilità per sapere cosa servire a una cena, volendo superare la fase del “faccio una pasta veloce”

«Penso che in molti libri ci sia una convergenza di diversi generi: diario di viaggio, memoir, romanzo e un classico ricettario», mi ha risposto questo agosto Rachel Roddy, food writer inglese che vive tra Roma e la Sicilia, quando le ho chiesto opinioni sul tema. Il suo ultimo libro, Two Kitchens, è soprattutto un memoir sulla (sua) scoperta della Sicilia grazie al marito, e anche più intimamente l’inserimento in una nuova famiglia, l’apprendimento di gesti, profumi e tradizioni. Le fotografie non mostrano piatti ben saturi ripresi dall’alto, ma cucinini con forni a gas, barattoli di salsa fatta in casa, terrazzi (di Gela) ricoperti di pomodori stesi ad asciugare, bagagliai di Fiat scassate pieni di ricotta. Certo che ci sono le ricette, e sono ancora più buone e sentite, contornate come sono in questi guanciali di storie (storie: non storytelling). Personalmente sarà dura, quest’inverno, rinunciare per motivi stagionali alle salsicce all’uva e cipolla, ai peperoni al forno con alici e olive.

Parlando di storie, uno dei libri più preziosi e ispiranti usciti ultimamente si chiama How to Eat a Peach ed è scritto da Diana Henry: non una raccolta di ricette ma di menu, ognuno ispirato da un luogo, una stagione e un momento della vita della scrittrice. Ispirazioni, storie, paesaggi, e molta utilità per sapere cosa servire a una cena, volendo superare la fase del “faccio una pasta veloce”. New Kitchen Basics, l’ultimo libro di Claire Thomson, ha un altro approccio ancora, essendo una guida e un laboratorio: 10 ingredienti, 12 ricette per ingrediente. Leggetelo, e saprete gestire ogni trasformazione a cui sottoporre un pomodoro, una patata, una coscia di pollo, un limone, e anche un uovo. Per preparare la dispensa prima ancora di accendere i fornelli è perfetto il Ducksoup Cookbook. The Wisdom of Simple Cooking di Clare Lattin e Tom Hill, fondatrice e chef di Ducksoup, tra i migliori ristoranti di Londra. È, oltre a un ricettario straordinario, anche un manuale per avviare un ristorante, e per avere una cucina sempre rifornita di ingredienti basilari per diversi tipi di preparazioni: limoni preservati, salsa verde, kimchi, labneh. Ed è un inno all’arte dell’abbinare, anche senza cucinare; curioso per un “cookbook”, eppure: prosciutto, noci e miele; pesche nettarine, cagliata di capra e basilico; radicchio, arance rosse, ricotta salata e pistacchi. Sono tutti libri simili nella forma: copertina rigida, peso sostenuto, dimensioni pure. Non penso però che molti starebbero male con una copertina morbida, in formato tascabile. Per leggere di un agnello all’aglio selvatico, del posto da cui veniva, del perché e del come è finito su quelle pagine: una storia.