Attualità | Lavoro

C’è ancora vita fuori dal lavoro?

Si inizia a parlare di settimana corta, di riduzione delle ore lavorative. Prima, però, vanno ripensati i confini tra il tempo libero e il tempo del lavoro.

di Davide Coppo

La collega al telefono inizia dicendo: «Ciao, lo so che sei in ferie». Poi continua con una scusa timida, e dice una cosa del tipo: ma è una cosa veloce, ma dovevo proprio avvisarti, ma ci metto un attimo, ma ho bisogno di te per questa cosa. Io potevo non rispondere, e a volte succede così. A volte però non ci penso, e il senso di emergenza ha la meglio sul resto; altre volte non mi dispiace nemmeno troppo passare cinque minuti al telefono, magari mi sto annoiando proprio durante quelle ferie, d’altra parte la noia è un elemento della realtà ormai così difficile da gestire che anche io, come tutti, cerco inconsciamente di rifuggirla. Quindi non è solo colpa della collega, che mi chiama quando sono in ferie. O alle otto del mattino, prima che la giornata di lavoro abbia inizio. O in pausa pranzo. Stai mangiando? Allora chiede, anche se lo sa già. E continua: vabbè ci metto un attimo. Anche io sono parte di questo circolo vizioso. Questa dipendenza? Questo sistema ricattatorio? Ognuno lo chiami come vuole.

Come dovremmo comportarci, invece, con le email ricevute la notte o nei festivi? Su un numero di inizio 2023 del New York Magazine, tutto dedicato a stabilire e ristabilire le regole di una “nuovo galateo” post-Covid, ho letto che è lecito mandare email a qualsiasi ora del giorno. Scrivono: «È ok mandare una mail, un messaggio o un DM a chiunque a qualsiasi ora. Non c’è niente di peggio che essere svegliato alle 2:30 della mattina da un messaggio cretino o da una notifica di Slack: e allora perché te lo infliggi? Telefoni e computer hanno ottimi metodi per organizzare il tuo tempo “offline”, come eliminare le notifiche o impostare limiti alle ore di lavoro. Siamo noi i responsabili per i rumori e i suoni che facciamo entrare nelle nostre vite». Potrei essere d’accordo, se il mio non rispondere fosse accettato, e non combattuto con un secondo messaggio, poi un terzo, a volte una chiamata, e talvolta con la passivo-aggressività del giorno successivo: «Ieri ho provato a chiamarti».

Da quando i lavori da “colletti bianchi” – non soltanto quelli creativi – sono tornati alla normalità dopo il terremoto-Covid, si fa molto parlare di lavoro agile, di riduzione delle ore di lavoro settimanali, di settimana corta. Come sempre, sono cose che si fanno prima nell’Europa del Nord e nel mondo anglosassone, ma nel marzo 2023 se ne è parlato molto anche in Italia, perché due grandi gruppi come Intesa Sanpaolo e Lavazza hanno deciso di progettare la settimana lavorativa su 4 giorni anziché 5. Il Movimento 5 Stelle, con una proposta di legge firmata sempre a marzo 2023, ha chiesto la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario a 32 ore, la stessa cosa sostenuta negli Stati Uniti dal 32-hour Workweek Act promosso da Mark Takano. La proposta di legge di Takano, negli Usa, andrebbe a sostituire, se approvata, il Fair Labor Standard Act del 1938, legislativamente una pietra miliare per la misurazione del lavoro e della conseguente retribuzione. Stabiliva, per la prima volta dalla Rivoluzione industriale, un preciso metodo di pagamento per il lavoro effettuato: il tempo di occupazione. Divideva le ore impiegate a lavorare dalle ore da dedicare al tempo libero. Le prime dovevano ammontare a un tot settimanale, ed erano retribuite. Suonata la campanella, si attraversava un confine, fisico ma soprattutto comportamentale: il lavoro era finito, c’era del tempo da godere in altro modo, a discrezione del singolo.

È un bene, naturalmente, che si sia arrivati, oggi, a discutere di una settimana da 4 giorni lavorativi o a parlare di un limite fissato a 32 ore – o ancora meno. Per poter abbracciare meglio queste proposte, tuttavia, dovremmo ripensare a dove sono finiti, oggi, i confini che separavano il tempo del lavorare e il tempo libero dal lavoro. Non c’entra soltanto la volontà di lavorare meno, ma anche la necessità di farlo meglio. Nel 1930, nel saggetto intitolato Possibilità economiche per i nostri nipoti, Keynes prevedeva che di lì a qualche decennio le persone avrebbero lavorato circa tre ore al giorno, o quindici ore complessive alla settimana. L’unione di ricchezza e tecnologia, secondo l’economista, avrebbe permesso alle persone di avere tempo libero in abbondanza, con una conseguente nuova sfida. Il problema, scriveva, sarebbe allora stato quello di come occupare quel tempo libero, «per vivere saggiamente, piacevolmente e bene». La sfida è stata risolta facilmente: nel tempo libero, spesso e volentieri, ci abbiamo infilato altro lavoro.

Mentre leggevo le parole di Keynes pensavo a un meme che inizia dicendo: “Fai il lavoro che ami e…”. In teoria il vecchio adagio continuerebbe con “non lavorerai un giorno in vita tua”, ma la frase che invece conclude il motto è: “… e lavorerai letteralmente ogni giorno della tua vita perché hai trasformato un hobby in un lavoro vero e proprio e adesso non c’è modo di scappare a cosa cazzo stavi pensando”. Prima della rivoluzione industriale era il sole a regolare le ore di lavoro. Che poi, non si chiamavano nemmeno “ore”: non esisteva un vero e proprio tempo “libero”, non esistevano norme né orari. Si lavorava per sopravvivere, e si viveva di quello che il lavoro procurava. La fabbrica e il grande orologio comune cambiò tutto, nell’Ottocento: in quel momento, alla catena di montaggio, il dovere iniziava a una certa ora e finiva a un’altra. Per tutti, nessuno escluso. Le masse avevano dei nuovi confini, e i confini erano comuni a tutti. Tempo di lavorare, tempo libero. Lo stesso sistema – la stessa divisione – si è mantenuta anche con i lavori da ufficio, come se fossero tali e quali ai lavori meccanici. Le lotte sindacali, nei decenni, hanno portato alla diminuzione del monte orario settimanale, ma il concetto è rimasto lo stesso: siamo pagati per lavorare un determinato numero di ore, e non oltre. È evidente, tuttavia, che questo patto non funziona più: i confini si sono spostati, talvolta sono spariti. Il lavoro è entrato nel tempo libero. Il tempo libero, a sua volta, nel lavoro.

Non è una questione di pigrizia, né di anticipare una futura automatizzazione, ripensare la divisione delle nostre vite: c’entra invece il fare meglio, anziché no, e in modo contemporaneo. Ho letto questa storia legata a Best Buy, una catena di supermercati di elettronica americana: nel 2004 due responsabili delle risorse umane, Jody Thompson e Cali Ressler, decidono di tentare un esperimento per attirare nuovi lavoratori e trattenere gli attuali. Pensano: più che i premi, i dipendenti vogliono autonomia. «Le persone non vogliono “flessiblità”», ha detto Thompson in un’intervista al New Yorker, «vogliono il completo controllo sul loro tempo». Tra il 2005 e il 2007 iniziano quindi a dirigere un programma in cui i dipendenti scelgono in completa libertà – senza dover richiedere permessi – di lavorare da casa o in ufficio. L’unico obbligo è registrare le proprie presenze, assenze o giorni completamente off su un sistema comune. Il risultato: un’autogestione perfetta, in cui nessuno approfitta delle nuove libertà garantite. I problemi principali sono, all’inizio, soprattutto di natura personale: e cioè il comportamento passivo-aggressivo di alcuni colleghi, che mal giudicano quelli che si prendono più margini di autonomia. Anche quelli, alla fine, vengono superati. Il programma viene chiamato ROWE: Result-Only Work Environment. Si può fare la spesa il martedì mattina, e lavorare la domenica pomeriggio. I licenziamenti diminuiscono, quindi il turnover complessivo. Quasi tutti gli impiegati di Best Buy, nel 2008, hanno adottato il ROWE. I sondaggi interni sono estremamente positivi, con dipendenti che testimoniano di un sensibile innalzamento della qualità della vita lavorativa e non solo. Ressler e Thompson, a loro volta, stimano i vantaggi per l’azienda in milioni di dollari. Nel 2013, senza nessun motivo apparente, il nuovo Ceo Hubert Joly cancella il programma. Nessuna giustificazione viene data. Un portavoce spiega che da lì in avanti, gli impiegati avrebbero dovuto essere in ufficio costantemente. ROWE finisce così.

È soprattutto “colpa” della tecnologia, computer e smartphone, naturalmente, se certi lavori possono estendersi potenzialmente per 24 ore. La reperibilità costante è però un’evoluzione della tecnica che dovremmo giudicare alla stregua dell’arrivo della macchina a vapore, per quanto è stata in grado di cambiare le nostre abitudini e possibilità: e se non viene trattata in questo modo, è probabilmente perché non garantisce più controllo dei padroni sui lavoratori, ma potrebbe dare a questi ultimi più libertà. Ho letto di recente una similitudine interessante: senza più limiti temporali, senza più confini tra una parte di giornata lavorativa e una parte di giornata “libera”, e con un lavoro che quindi rischia di tracimare in ogni ora del giorno e della notte, lavorare assomiglierebbe a una partita di calcio in cui non si fischia mai la fine. Agonismo senza fine, spettacolo costante? No. Invece giocatori, arbitro e pubblico perderebbero in atletismo, precisione, interesse. Nessun guadagno, alla fine dei giochi. Ce ne accorgiamo sempre più spesso durante le serate, i pranzi, i diversi incontri extra-lavorativi: alla domanda “come stai” si risponde in modo sconsolato, con formule stanche, rassegnate. Accenni tristi al lavoro, allo stress. È un periodo complicato, ma passerà. Passa mai? Probabilmente no. Poi arriva una notifica Slack. “Scusami, risolvo questa cosa e ci sono”.

Il lavoro agile che è stato introdotto in molte aziende a causa del Covid è stato un primo passo verso un nuovo modo di governare il tempo (quando non è stato prematuramente eliminato una volta terminata l’emergenza), ma per regolare al meglio un’epoca a tutti gli effetti nuova è ancora troppo poco. È ora di ripensare il vecchio conteggio orario, e di mettere sul piatto della bilancia concetti più sfumati, perché sfumati sono diventati i confini che fino a pochi mesi fa regolavano questa parte di vita: il volume di lavoro, il carico cognitivo, e soprattutto gli obiettivi, sull’esempio del ROWE. Gli scioperi per ottenere le otto ore lavorative servivano, una volta, a pretendere un tempo libero ben confinato, da passare con la famiglia, con gli amici, a oziare. Quel tempo libero l’abbiamo perso, e va ritrovato, per non costruire una società triste, esaurita, e dalla produttività confusa e caotica. Quando dei confini cadono, occorre avere il coraggio di immaginare un’alternativa. Sarà fondamentale, come in ogni processo rivoluzionario, non accettare le vecchie catene come si accetta un destino.