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Il diritto di fare schifo quando tutto fa schifo

Cos'è il "goblin mode", un modello di comportamento che esalta la perdita del controllo, almeno per un po' (e in tempi difficili).

di Clara Mazzoleni

Da qualche parte (non ricordo più dove, se in un articolo, un tweet, un post, una storia: nel digital overloading tutto si mescola e si sovrappone) ho letto che uno dei pregi del personaggio di Zendaya in Euphoria è quello di offrire finalmente a una tossicodipentente donna il ruolo di protagonista. Non che sia la prima tossica che incontriamo in una serie di successo, se ne potrebbero citare tante, tipo Jane Margolis di Breaking Bad, ma difficilmente hanno un ruolo da protagoniste. Di solito sono gli uomini a essere al centro quando fanno schifo. Da un’altra parte (Dio sa dove) ho letto che la guerra in Ucraina potrebbe segnare l’inizio del tramonto dei meme, dopo un percorso che negli ultimi anni li ha portati a galla, dall’underground al mainstream. Ha senso ironizzare su una tragedia in cui siamo totalmente immersi? E se fosse un modo molto malato di reagire, e in quanto tale pericoloso e deresponsabilizzante? Da quando il modo in cui nelle stories si intervallano frivolezze e aggiornamenti sulla guerra ha iniziato a sembrarci così stonato? Ogni volta che cambiamo idea su qualcosa, perché quel qualcosa si trasforma e smette di avere il senso che aveva, o perché inizia a essere problematizzato, è uno scossone che diamo allo spirito del tempo. È un po’ quello di cui parliamo nel nuovo numero di Rivista Studio, in cui trovate il pezzo di Allison P. Davis pubblicato sul New York Magazine che parla appunto di “vibe shift”, ovvero come il modo in cui la trasformazione di quello che ci piace (musica, look, abitudini) in realtà racconta molto di noi e dei nostri cambiamenti più profondi.

Nell’ultima settimana il Guardian, e poi The Face, hanno pubblicato due articoli che parlano del “goblin mode”. È un modo di essere che si contrappone allo stile perfettino con cui siamo state bombardate negli ultimi anni, prima su Instagram e poi su TikTok, perché il social della Gen Z è sì più spontaneo e disordinato, ma conserva una fortissima componente di perfezionismo. Il “goblin mode” nasce in contrasto con la rottura di palle della skin care in settecento passaggi, la casa borghese col parquet a spina di pesce e gli oggetti di design, i pasti sani con la bowl di riso e alghe fermentate e altre cose che non so nominare, le foto dei ristoranti e dei viaggetti nei posti carini e culturali (sottinteso: #blessed), la spinta a essere furbe e calcolatrici e “bitch” non perché sia un sano difetto di personalità, ma in funzione del successo professionale (sottinteso: #girlboss), e l’orrenda, malefica formula che ha rovinato molte vite, provocando depressioni, attacchi di panico, disturbi alimentari e ricoveri nelle adolescenti e nelle donne di tutto il mondo, ovvero quella che ti invita a mettercela tutta per essere “la versione migliore di te stessa”.

Ma come, pensavamo di esserci liberate di tutto ciò: negli ultimi anni ci siamo ripetute che i tempi delle influencer perfettine erano ormai lontani, viva la body positivity e l’acne e l’accettazione dei difetti e dei momenti di down attraverso la loro ostentazione. L’estetica sembrava cambiata: più randomica, sporca, causale, onesta. Ma qualcosa dev’essere andato storto durante il processo di normalizzazione. Il concetto è un po’ quello della cover story di Vogue Usa con Bella Hadid, in cui la donna più bella del mondo ci rivela di aver sofferto per anni in quanto “sorella brutta”, credendo che basti droppare qualche post in cui piange per meritarsi la nostra empatia. Mi spiace, Bella, niente da fare: se anche tu puoi sentirti depressa, pensa un po’ come posso sentirmi io. Succede spesso (è il lato oscuro della body positivity): paradossalmente, i messaggi contraddittori implicitamente veicolati dalle star che si mostrano vulnerabili e dalle paladine della bellezza “non convenzionale” (sempre stupende e super fotogeniche nonostante i loro presunti “difetti”), riescono a farmi sentire ancora più brutta e malata e impotente. Forse preferivo quando l’ideale di perfezione erano le top model inarrivabili, dentro e fuori, e la distinzione tra noi e loro era molto precisa: loro, dee, noi, normali. Se Bella Hadid dimostra di essere sia dea che normale, io cosa sono, un mostro? Un goblin, forse.

Le sostenitrici del “goblin mode” rivendicano il diritto di fare schifo per fare schifo, un po’ come Théophile Gautier teorizzava il concetto di “art pour l’art”. È sempre la solita domanda: perché noi donne, per essere degne di essere ascoltate (e non compatite), dobbiamo aver prima dato il massimo a livello professionale, culturale, economico, estetico (e solo allora, poterci permettere di confessare le nostre difficoltà)? E soprattutto, visto che stiamo parlando di spirito del tempo, perché quando tutto è un caos noi dovremmo continuare a mantenere il controllo? Certo, se tutte impazzissimo e iniziassimo a mangiare burrito ordinati con Glovo Express e bere vino da 3 euro e fumare settecento sigarette e lavorare e guardare serie tv di cui nessuno sta parlando senza mai alzarci dal letto trascurando del tutto la nostra skin care sarebbe un vero disastro, e la pandemia dovrebbe avercelo insegnato. Durante i mesi di lockdown dovremmo aver imparato che di fronte a una perdita di controllo (o presunto tale: non che l’avessimo mai avuto) nei confronti di una realtà che ci stupisce e ci spaventa, esercitare il dominio almeno su di sé è un ottimo coping mechanism, un modello di comportamento che aiuta a salvaguardare la nostra salute mentale (sempre che non sfoci in ocd). Ma di fronte al dolore e allo smarrimento non è sempre possibile fare ciò che è utile e giusto. Forse, quando il mondo va a rotoli, è quasi più rispettoso rotolare con lui.

«Com’era, Kim Kardashian? “Alza il culo e lavora?” No grazie, preferisco impazzire e iniziare a gattonare a quattro zampe per cercare spuntini nel mio appartamento», scrive Jade Wickes su The Face. E ammette subito di aver attinto dal pezzo del Guardian, che descrive il goblin mode come un modo per abbracciare «il comfort della depravazione e un allontanamento dall’influenza del “cottagecore” dei primi giorni della pandemia,  guardare liberamente reality tv di basso livello (proprio come fa Rue/Zendaya nella puntuata di Euphoria applaudita per aver descritto finalmente bene la depressione, nda) e mangiare senza posate».

In realtà il termine “goblin mode” risale al 2009, ma è diventato virale il mese scorso, quando un titolo falso suggeriva che Julia Fox (figuriamoci se non c’era di mezzo lei) avesse rotto con Kanye West perché lui non l’apprezzava quando andava in “goblin mode” (nozione gossipposa che in realtà solleva una questione fondamentale: non è che il motivo per cui non andiamo mai pubblicamente in goblin mode è per paura di risultare respingenti allo sguardo maschile?). La rivelazione di Fox ha scatenato un dibattito sull’argomento, anche se lei ha voluto specificare di non aver mai usato il termine “goblin mode”. E allora cosa importa chi ha detto cosa: l’affermazione, anche se fake, è arrivata nel posto giusto al momento giusto.

La TikToker citata da The Face, @horribleglitter, ne fa una questione politica: ovviamente, l’estetica della perfettina (#thatgirl) è legata al capitalismo. Il goblin mode andrebbe nella direzione opposta. È un ragionamento che mi ha fatto ripensare alla scena di Parasite in cui i componenti della famiglia povera, durante la loro serata da leoni nella casa dei ricchi, non possono fare a meno di reiterare le loro abitudini da poveri: mangiare schifezze e ubriacarsi male. Indugiare orgogliosamente nel goblin mode è dunque un modo per rivendicare con fierezza la propria appartenenza a una classe sociale bassa, nel momento in cui tutti, attraverso l’estetica perfettina, cercando di simulare o confermare un avanzamento o un’appartenenza alla classe sociale alta? È il solito discorso dei consumi aspirazionali, ma è interessante notare come si mescoli sempre di più col tema della salute mentale. Perfettina uguale sana o aspirante tale. Goblin mode uguale pazza. «Il mio corpo è un bidone della spazzatura con una data di scadenza e non ho tempo per merdate sane», dice una TikToker. Forse una delle migliori teoriche del goblin mode – oltre a Cat Marnell, l’autrice di How To Murder Your Life, che su Twitter ha espresso tutto il suo entusiasmo per l’argomento (come si può evincere leggendo il suo libro, è in goblin mode da almeno vent’anni) – è stata Ottessa Moshfegh. Non è forse il suo Un anno di riposo e oblio un’ode al diritto di fare schifo?