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Achille Lauro e la scalata al nuovo pop italiano

Roma, la strada, la trap, poi Sanremo e ora il nuovo album, 1969: ritratto di un outsider con potenzialità nazionalpopolari.

Un frame del video "C'est la vie" di Achille Lauro

Nell’infinita noia da varietà mancato che è stato Sanremo 2019, ci sono almeno un paio di cose di cui dare atto a Claudio Baglioni che, va detto anche a mesi di distanza, è stato un signor direttore artistico. La prima è di aver cercato di aprire ai telespettatori di Rai1 una finestra su quella che è oggi la musica italiana, proponendo una selezione di artisti che in un qualche modo la riassumesse (o almeno ci provasse), la seconda è quella di aver portato sul palco dell’Ariston Achille Lauro (Lauro De Marinis) e Boss Doms (Edoardo Manozzi). Anche la vittoria di Mahmood si è rivelata una bella soddisfazione, ma è stato il duo dei “compositori” romani (questo il nome con cui hanno partecipato all’edizione di Pechino Express nel 2017) a prendersi la scena del Festival. Intanto perché hanno scatenato la ridicola polemica inscenata da Striscia la notizia, quindi perché il loro brano, “Rolls Royce”, ha tirato in mezzo l’icona per antonomasia, e cioè Vasco Rossi. Tanto è bastato per far deflagrare le cronache sanremesi e far approdare i due artisti nel pit del popolare italiano, quel territorio grigio dove i vestiti sono perlopiù brutti e le battute non fanno quasi mai ridere.

Se si cerca oggi su Google Achille Lauro, pseudonimo dietro al quale ci sono De Marinis, Manozzi ma anche molte altre persone che con loro sono cresciuti e con loro ancora lavorano, bisogna scartabellare un bel po’ prima di arrivare all’armatore e politico napoletano e/o alla nave dirottata nel 1985 e naufragata nel 1994. È il segno inequivocabile dell’algoritmo come memoria selettiva dell’oggi e la conferma di un cortocircuito piuttosto singolare, in quest’epoca in cui genitori e figli fruiscono delle stesse piattaforme digitali e hanno accesso agli stessi contenuti, musica compresa, e dove Sfera Ebbasta e Young Signorino devono ciclicamente ricordare (a mezzo Instagram) che non sta a loro occuparsi dell’educazione di chi li ascolta, che in fondo fanno solo canzoni, non sono insegnanti tantomeno i padri e le madri di nessuno. In questo panorama, Achille Lauro è un po’ un soggetto misterioso, un outsider, come gli piace definirsi quando parla di sé in prima persona e smette, almeno per un momento, il plurale con cui sempre si riferisce al progetto musicale di cui è il volto e il cognome d’arte.1969, l’album che esce il 12 aprile (il secondo per Sony Music Italy, dopo Pour L’Amour del giugno 2018) segna l’ennesima trasformazione di pelle e di sound di Achille Lauro e di tutto quello che gli sta intorno. Tante cose sono cambiate dal primo mixtape Barabba, uscito nel 2013, in cui Lauro si copriva sempre la faccia ed era davvero incazzato, a oggi che arriva in conferenza stampa in completo bianco YSL vintage e stivaletti glitterati, timido sì ma così gentile da mandare in estasi (e in confusione) la vecchia stampa italiana che ancora gli chiede se gli dia fastidio che “il suo passato” continui a venir fuori ora che è “arrivato” al grande pubblico.

La sua storia ha già una notevole bibliografia, a cominciare da Sono io Amleto, l’autobiografia sui generis uscita per Rizzoli lo scorso gennaio, per arrivare alle sue interviste pre Sanremo (come questa, bellissima, per Esse Magazine). Classe 1990, romano della Serpentara, ha iniziato a fare musica frequentando gli amici del fratello, quelli del Quarto Blocco, con i quali ancora collabora: da Frenetik & Orange3 a Simon P, uno dei due featuring (insieme a Coez) di 1969. Insieme hanno scritto “Roma”, a un primo ascolto forse il pezzo migliore del nuovo album, un brano che «non avrei potuto scrivere senza Simon, che non è stato fortunato come me ma che io considero un grande autore». I primi a notarlo, dopo Barabba, sono Marracash e Shablo, che lo scritturano per Roccia Music: escono lì la prima raccolta Achille Idol – Immortale (2014), l’ep Young Crazy (2015) e il primo album solista Dio c’è (2015). Nel 2016, con gli amici e i collaboratori più fidati fonda No Face e pubblica Ragazzi madre: con il passare del tempo Achille Lauro scopre il volto, mette in mostra il corpo tatuato, inizia a giocare con i vestiti come gioca con il name dropping ridondante e il romanesco nelle sue canzoni. «Abbiamo sempre raccontato la vita di strada, senza osannarla», ha ripetuto spesso, e questo suo rifiuto del machismo da rapper – «gli ambienti trap mi suscitano un certo disagio», ha scritto nel suo libro «sono allergico ai modi maschili, ignoranti con cui sono cresciuto» – è probabilmente la cosa che lo rende più interessante. «Quando volevo essere esplicito nella mia carriera lo sono stato», ricorda ai giornalisti che insistono sui doppi sensi, e dice di voler provare a cantare una generazione, perché con Sanremo è arrivato «a quelli dai 25 in su, che poi sono i miei coetanei».

Il 2018, per Achille Lauro e Boss Doms, è stato l’anno della samba-trap, manifesto un po’ cazzone che mette insieme la loro visione della vita, questo peso della strada, qualunque cosa significhi, le droghe, il sesso libero, il riscatto che alla fine è solo divertimento, non prendersi sul serio, vestirsi da coglioni, ripetersi senza paura di essere ridicoli «siamo salvi mon frere». Poi è arrivata “Rolls Royce” e quel «voglio una vita così, voglio una fine così», e “C’est la vie” che ora Lauro è anche un po’ Califano, «so che puoi farlo finiscimi, aspetto la fine tradiscimi», le icone di tre generazioni fa e il palco di Sanremo, quello di X Factor anche, dove molto probabilmente Achille Lauro approderà presto come giudice al posto del calante Fedez (così dicono i ben informati, ha anche rimandato il tour a ottobre). I vecchi fan forse (non è detto) storceranno il naso all’ascolto di 1969, eccone un altro che ha fatto i soldi, ma lui lo fa per il gruppo, per quel senso di onestà verso chi c’era dall’inizio, per il sacrosanto diritto di provarci e di sperimentarsi, per quando dormiva in una Smart e sognava piatti di pasta. Intanto sta preparando altri due album, poi chissà se mollerà tutto come ha scritto nel libro, per ora Achille Lauro, che non pubblica mai nulla di personale sui social, è impegnato nella trasformazione definitiva, quella in icona nazionalpopolare. Metti che gli riesce, e che chiude pure Striscia la notizia, pensa che Paese meraviglioso. Vestito bene Michael Kors, che viene da chiedersi dove sono gli stylist della moda quando servono (un sogno: vederlo in Dior Homme di Kim Jones) e sempre quel fondo di disperazione nei suoi testi – «è una sfumatura caratteriale, ce l’ho dentro di me», dice – a ricordarci che alla fine Achille Lauro non è mai cambiato, chiunque egli sia.