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La Galleria di Milano non è ancora pronta per diventare il tempio del lusso: le griffe si litigano gli spazi, ma dominano visiere, fotine e caffè.

di Marta Casadei

«Clà facciamoci una foto che la mettiamo su Facebook. Ma prendilo anche lo sfondo che comunque è bello». Milano, martedi 23 luglio, ore 11: tre ragazze dall’accento bresciano posano davanti a un iPhone per testimoniare la loro sortita milanese in una calda giornata d’estate. Divisa d’ordinanza da sedicenni – hot pants colorati, sandali e canottiera, occhiali da sole con le lenti a specchio – e voluminosi sacchetti di H&M già stretti in mano, probabilmente sono solo all’inizio di una giornata di shopping a prezzi stracciati: i saldi sono iniziati quasi un mese fa e sulle vetrine di molti negozi del circondario troneggiano scritte che invitano ad approfittare di secondi e terzi ribassi. Lo “sfondo” di cui parlano le giovani a caccia di occasioni, quello “che comunque è bello” comparato chissà a quale altro spazio, non è un luogo qualunque: è la Galleria Vittorio Emanuele II, il “Salotto d’Italia”, costruita alla fine dell’Ottocento e progettata da Giuseppe Mengoni.

Se 150 anni fa la Galleria – i milanesi doc la chiamano così, in modo asciutto e confidenziale, e comunque la frequentano il meno possibile – rappresentava la voglia di grandeur di quella che si preparava a diventare la capitale economica e industriale d’Italia, oggi è uno degli spazi più ambiti dalle grandi maison del lusso. Che negli ultimi due anni, complici da un lato i contratti d’affitto giunti a naturale scadenza e dall’altro la posizione strategica del luogo che ha portato qualche azienda a forzare un po’ la mano suscitando malumori diffusi, è diventata oggetto di cambiamento e di dibattito. Nei piani strategici delle case di moda – italiane e non, ma soprattutto italiane – la Galleria è un posto al sole da conquistare, uno status da non perdere, semmai da acquisire, e un centro di raccolta per turisti stranieri e facoltosi. L’unico target con cui le griffe del lusso oggi possono dialogare in modo proficuo. Almeno quando si parla del Belpaese.

Il nuovo corso della Galleria muove da parole di speranza: valorizzazione, bellezza, eccellenza. E da grandi nomi che mettono sul piatto altrettanto rilevanti budget. La Galleria, infatti, è un monumento storico di proprietà del Comune di Milano che, mediante appalto pubblico, ne assegna gli spazi per un tempo limitato. La rivoluzione griffata a ritmo serrato comincia due anni fa: il 4 novembre 2011 viene reso noto che gli spazi per anni occupati dall’insegna del fast food per eccellenza, Mc Donald’s, sarebbero stati riassegnati a Prada. La casa di moda fondata dal nonno di Miuccia Prada aprì in Galleria il suo primo negozio nel 1913 e per ottenere lo spazio che si trova sul lato opposto dell’Ottagono ha offerto una cifra superiore del 150% rispetto al canone d’affitto iniziale. E ha sbaragliato i concorrenti in gara: Gucci da un lato e Apple dall’altro, non proprio due realtà marginali. Il negozio Prada dedicato all’uomo ha aperto i battenti qualche giorno fa; il progetto, tuttavia, prevede un ulteriore ampliamento a seguito della ristrutturazione dello spazio, che si sviluppa su sei livelli: al mezzanino sorgerà un ristorante mentre i piani superiori ospiteranno spazi espositivi per la Fondazione Prada e la sede del Gruppo. Oltre a Prada – ma anche a Gucci e Louis Vuitton, che hanno due negozi in loco, insieme a molti altri brand – anche Giorgio Armani e Versace hanno manifestato il proprio interesse per il Salotto d’Italia: Armani aprirà a breve una boutique negli spazi che furono del Cravattificio Zadi, presente in Galleria con Andrew’s Ties – l’azienda che fa capo allo stilista piacentino ha pagato 7 milioni di euro per subentrare a Zadi tramite cessione del ramo d’azienda non essendo ancora concluso il contratto d’affitto tra quest’ultima e il Comune – mentre, con la stessa logica ma con un esborso di 15 milioni, Versace ha cercato di sostituirsi alle storiche Argenterie Bernasconi, trovando per ora ostacoli burocratici. Sempre quest’anno Altagamma, associazione che riunisce le imprese del lusso italiano, ha proposto al Comune una co-gestione pubblico-privata dell’Immobile, attraverso la costituzione di un fondo immobiliare per il 49% in mano ai privati: l’obiettivo sarebbe sempre lo stesso, quello di fare della Galleria una vetrina internazionale per i marchi del made in Italy (e non solo).

Meno panini, più accessori: è sempre più chiaro come i piani di sviluppo della Galleria puntino a ridimensionarne il lato pop  a favore di quello luxury. Ma, sorge spontanea la domanda: questo Salotto d’Italia prestato ai turisti è realmente un tempio del lusso? O, almeno: è pronto per esserlo? Messe da parte le vetrine griffate dei già citati brand e il famoso Seven Stars Galleria, hotel di sole suites con maggiordomo privato che ha aperto i battenti nel 2007 proprio all’interno della costruzione di Mengoni, l’immagine offerta dal luogo in una mattina di luglio è un po’ diversa. Insieme a “Clà” e alle sue amiche – le ragazzine in shorts in missione saldi descritte in attacco al pezzo, che infilano subito la porta di Massimo Dutti (Gruppo Inditex, lo stesso di Zara) a caccia di occasioni o semplicemente di un po’ di aria condizionata – a popolare la Galleria ci sono personaggi di ogni genere, nazionalità e interesse. Un gruppo di giapponesi con gli immancabili ombrelli parasole ancora aperti è concentrato sulle nozioni che la guida, qualche metro più avanti, sta trasmettendo via auricolare; una coppia americana in prendisole e Havaianas si fa immortalare davanti alla vetrina della Zecca dello Stato (chissà poi perché) con tanto di maxi valigia al seguito; due bambini italiani si ricorrono attorno al famoso – e ormai logorato – toro: il primo ha in mano un gelato, che cade; il secondo calpesta il gelato caduto; entrambi suscitano le ire della madre che inveisce in dialetto e li porta via di peso verso chissà dove. Intanto, verso Piazza della Scala, cavallini di plastica si muovono autonomamente sul pavimento mosaicato sotto l’occhio attento dell’ambulante che li vende: la gente li dribbla con nonchalance e si immerge di nuovo nel caldo milanese.

La luxury experience in Galleria sembra per ora aver poco a che fare con acquisti da decine di migliaia di euro: un gruppo di sessantenni in Birkenstock si concede un caffè – lussuoso, questo sì: il prezzo oscilla intorno ai 3 euro, ma è in linea con il costo dell’espresso oltre confine –; qualcuno azzarda un aperitivo (accompagnato da pizzette e patatine: niente buffet luculliani) e qualcun altro si accontenta di una bottiglia di acqua frizzante. Chi siede in uno dei numerosi bar della Galleria – molti sono storici; qualcuno offre un menù speciale a prezzi (quasi) speciali – non sembra pronto per fare shopping d’altagamma, ma, piuttosto, si diverte a osservare questo strano popolo che si aggira sotto gli archi dell’Ottagono. Il colpo d’occhio offre una scena dinamica e surreale allo stesso tempo: due sposi orientali si fanno immortalare da un fotografo proprio al centro della Galleria e, attorno a loro, staziona a semicerchio un capannello di persone che a loro volta li fotografa, quasi si trattasse di una performance artistica. Meglio in Galleria che in Piazza Duomo completamente coperti dai piccioni, direte: ebbene sì, i gusti dei turisti orientali pare si stiano evolvendo in chiave sofisticata.

La Galleria di martedì mattina è il regno dei cappellini con la visiera colorata e dei sandali con la suola anatomica, delle Canon Eos con maxi obiettivo e delle bottigliette d’acqua che si comprano all’Autogrill in Piazza Duomo. Cercando prove di shopping selvaggio mi imbatto in un paio di sacchetti di Gap, Footlocker, H&M e Benetton. Tutto qui. Sarà che la giornata è appena cominciata; sarà che chi compra è ancora in negozio – effettivamente dentro Prada, Louis Vuitton e Gucci c’è gente –; sarà che i turisti arabi, che rappresentano una grossa fetta della clientela delle etichette di lusso, organizzano la propria giornata – e i propri viaggi – sulla base del Ramadan, che dura fino al 9 agosto. Sarà per tutte queste e molte altre ragioni, ma il Salotto d’Italia continua a mantenere la sua anima pop tra le vetrine e le insegne lussuose. La trasformazione, caldeggiata od ostentata che sia,  è evidentemente ancora in corso.