Stili di vita

Tovagliette — Tramezzino

Il tramezzino compie 90 anni in questi giorni: cominciare con tonno e uova, e poi partire per la tangente con sashimi di triglia e radicchio tardivo.

di Tommaso Melilli

Ci sono cose che ritornano. Oggetti, luoghi, gesti e ornamenti di un passato più o meno lontano che ridiventano prepotentemente attuali. Le Stan Smith, la cedrata, i saloni da barba con le poltrone reclinabili di pelle, i piatti coi fiori disegnati. Un tempo largamente e ingenuamente popolari, li abbiamo dimenticati, maledetti, marchiati come obsoleti e defunti. Poi risorgono, più o meno con la stessa forma, ma più costosi e carichi di quella cosa che alcuni si ostinano ancora a chiamare “esclusività”.

Alcuni diranno che sono cose che, semplicemente, sono tornate di moda. A mio modo di vedere la situazione è un po’ più complessa. Un mio amico ha un modo molto sintetico ed efficace per descrivere questo tipo di fenomeno: «Eh, ha fatto il giro». La definizione è bella perché rende la temporalità del fenomeno: e sottintende che gli oggetti che risorgono dal passato sono inevitabilmente destinati a morire di nuovo, forse in attesa di “rifare” il giro.

Ecco, i tramezzini hanno fatto il giro.

Ciclicamente, mi capita di fantasticare su spericolate operazioni concettuali propedeutiche all’apertura di ristoranti immaginari. La scorsa estate, per esempio, avevo deciso di aprire un ristorante di tramezzini gourmet. I tramezzini gourmet esistono da un pezzo, ma stranamente nessuno ha ancora pensato di importarli massivamente a Parigi, che è la città dove, nella mia testa, avrei aperto la mia tramezzineria.

Il ragionamento era il seguente: ciò che rende un tramezzino formidabile, prima ancora della qualità e della scelta degli ingredienti, è il fatto che sia confezionato al momento: bastano alcuni minuti e la maionese impregna il pane, che diventa umido, perde fragranza e immiserisce tutta l’esperienza. Un po’ come il sushi, mi dicevo. La differenza fra un vero sushi bar e quelle cose che troppo spesso ci ritroviamo a mangiare sta proprio qui: l’accoppiata di riso e pesce crudo, perché di vero sushi si parli, dev’essere ingerita al massimo dieci secondi dopo essere stata assemblata. E questo per via della differenza di temperatura: il pesce dev’essere freddo, il riso dev’essere tiepido, anzi a temperatura corporea (la temperatura delle mani del sushi chef che ha confezionato la piccola mandorla di pesce). Tutta l’esperienza del sushi sta nel contrasto di temperature fra il riso e il pesce, che per questa ragione va manipolato il meno possibile. Per questa ragione i veri ristoranti di sushi non hanno tavoli ma solo banconi, e i pezzi vengono serviti (e preparati) uno ad uno, seguendo una cadenza che potremmo descrivere per “movimenti”: si comincia con i classici insostituibili, tonno, tonno grasso, salmone, in cui lo chef mostra quanto è difficile far bene le cose semplici; dopodiché seguono altri “movimenti” più creativi, con improvvisazioni che possono spaziare dai ricci di mare alla rana pescatrice, secondo le disponibilità del mercato e l’ispirazione del maestro.

Come si sarà capito, avevo deciso di fare la stessa cosa coi tramezzini. Ogni cliente sarebbe stato servito da uno chef dedicato per una serratissima e estremamente variegata sessione di degustazione. Cominciare con tonno e uova, prosciutto e funghi, gamberetti, e poi partire per la tangente con zucca e porchetta, guacamole e cioccolato, sashimi di triglia e radicchio tardivo, arance e acciughe, vitello tonnato, asparagi e uova.

Immaginavo già pairing ambiziosi fra tramezzini e cocktail. Tra le altre cose, avrei fatto una cosa del genere… Trovare delle triglie di scoglio (sono di un rosso più intenso) squamarle e sfilettarle (o farle sfilettare dal pescivendolo) e soprattutto accertarmi che siano state abbattute. Togliere le spine che saranno sfuggite ma lasciare la pelle. Spennellare il lato interno del filetto con dell’aceto balsamico, come se fosse salsa di soia. Lavare il radicchio, asciugarlo benissimo e tagliare le punte (3 centimetri al massimo), perché useremo solo quelle: il resto delle coste usatelo per qualcos’altro. Spalmare uno strato sottilissimo di maionese sul lato interno di entrambe le fette di pane e disporre il radicchio, concentrandone la maggior parte al centro del pane. Tagliare la triglia a fettine sottili (un filetto per coppia di tramezzini), e disporla nello stesso modo; dare una grattata di scorza di limone, una spolverata di pepe e un pizzico di fleur de sel. Richiudere, premere bene lati e angoli come se fosse un raviolo. Tagliare a metà in diagonale se siete di quella scuola, altrimenti tenetelo intero. Mangiatelo subito. Vi prometto che a un certo punto saprà di sushi.

L’origine del tramezzino è a quanto pare torinese, e sarebbe stato inventato proprio negli ultimi giorni di gennaio di novant’anni fa. Il nome, come quello dei vigili del fuoco, l’ha inventato D’Annunzio. Tuttavia, il mio personale maestro Yoda del tramezzino si chiamava Ugo, e lo ricordo, già vecchissimo, spalmare la maionese su queste interminabili tavolate ricoperte di pane bianco di fronte a schiere di ragazzetti che avevano marinato la scuola. È passato a miglior vita il mese scorso: chissà se sapeva di essere solo due anni più giovane dei tramezzini.

Il ristorante di tramezzini, ovviamente, non l’ho aperto. Però continuo a pensare che sarebbe stata una bella idea. Nel mio progetto, durante l’ultimo “movimento”, avevo pensato di lasciare uno spazio per una richiesta libera del cliente, uno slot carta bianca, per così dire, in cui il cliente avrebbe potuto chiedere un’improvvisazione su un ingrediente particolare per permettere a ciascuno di partecipare alla ricerca del tramezzino definitivo.

Voi, per esempio, che cosa avreste chiesto? Tonno e uova, però con la buzzonaglia? Caponata? Bollito misto in chiffonade? Solo maionese?

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