Attualità

Testimoni(al) o pregiudicati?

Pagati per non pubblicizzare: se i brand prendono le distanze dalle celeb.

di Manuela Ravasio

Non tutti se la cavano come Kate Moss. Che a lei sia concesso di imbellettarsi il naso in uno studio di registrazione all’alba dell’ennesimo contratto con la maxi catena di abbigliamento per sue emule, TopShop, salvo poi scoprire che il  tempo libero della modella ha un costo d’immagine, e alto, anche per TopShop stesso. Quella volta però la modella dovette fare un mea culpa che a differenza degli americani non prevede pubblica gogna televisiva, ma no, le era bastato limitare le uscite, farsi vedere più diurna che notturna e ritornare in linea. Per ridisegnare borse di Mulberry, sbattere le ciglia  “The London Look” per Rimmel e farsi rifotografare insieme al magnate di TopShop ci vollero pochi mesi. I contratti bruciati furono poche migliaia di sterline che la top recuperò ampiamente dopo.

Ma non tutti sono Kate Moss. C’è chi a 19 anni non era nudo davanti a Mario Testino, e che con solo qualche anno in più era sì nudo, ma in una limousine con una serie di altri compagni di casa alla Grande Fratello. E soprattutto era nudo di fronte a milioni di telespettatori che Jersey Shore se lo divorano come alette di pollo fritto. Mike The Situation, uomo latino palestrato con orecchini di zirconi e mani grandi pronte a gesticolare all’italiana, è uno dei prediletti e più disinibiti nella casa di Jersey Shore, telefilm-reality arrivato alla terza stagione, con pure trasferta fiorentina davanti a un Matteo Renzi imbarazzato. Mike The Situation però, se tante ne fa cadere durante le sue performance in club e simili, oltre al sindaco di Firenze  si è inimicato un grande “ideale” americano, un brand che nei giorni scorsi  è arrivato a chiedere al protagonista del reality di evitare, anzi, smettere completamente (e subito, grazie) di indossare capi firmati Abercrombie&Fitch. Il colosso del look da weekender avrebbe staccato un discreto assegno per togliersi dalla pubblicità gratuita che The Situation offriva loro indossando in diretta jeans baggy, felpe e t-shirt del marchio. La domanda è sorta spontanea: cosa ci siamo persi per non trovare una differenza tra i pettorali modificati del protagonista di Jersey Shore e i commessi del brand palestrati allo stesso modo (cioè con tutto lo sforzo aerobico a vista come The Situation)? Semplice, la buona stoffa kennedyana che fa degli attori di Jersey Shore –fenomeno americano che senza America e dinamiche usa non potrebbe esistere- volgari pupazzi un po’ troppo ignoranti mentre dei modelli/commessi di Abercrombie dei bravi ragazzi preppy, con (s)fortunatamente un fisico molto atletico. Del resto Abercrombie&Fitch di base è una linea per abbigliamento da tempo libero, meglio se sportivo. Ben vengano allora giovani prestanti, magari non sguaiati e lascivi come Mike, Mike The Situation.

Se il fascino latino  non è piaciuto a A&F ancora più fresca è la notizia di una telefonata fatta alla polizia che torchia da settimane Anders Behring Brevik: gli alti vertici di Lacoste gradirebbero che durante processi e riprese televisive il terrorista di Oslo non sbandierasse sotto il naso dei media la sua mania per il brand francese. Inequivocabili, e imbarazzanti, tutte le polo che Brevik ha indossato, e con cui tutti i giornali l’hanno ripreso mentre sfilava imperterrito e sostava nel van della polizia. La notizia della chiamata di diffida da parte di Lacoste è stata intercettata dal quotidiano Dagladet, e la maison francese non è corsa a negare il fatto. Che la centenaria polo sia associata all’estremista norvegese ha fatto preoccupare non poco la casa d’abbigliamento che avrebbe amato molto di più essere al centro di un altro evento attuale, gli Us Open di queste settimane. Staremo a vedere se nelle prossime uscite pubbliche indossrà ancora quella che chiama la sua divisa o se in linea con i nuovi tempi, subirà gli scossoni (meno borghesi) del contatto con gli altri carcerati.

Estremi che si toccano, brand del comfortwear o casual che si fanno l’autogol senza potersi difendere del tutto. Non si tratta di  griffe o linee deluxe, ma di chiari marchi-simbolo del lifestyle quotidiano, di brand accessibili, desiderabili e comprabili al punto da farne una divisa quotidiana. E ancora, a differenza di casistiche del passato sportivo, i due fenomeni mediatici dell’estate sono stati immediatamente placcati e ridimensionati, perché per quanto criticabili e nocivi avevano più visibilità di qualunque campagna lanciata negli stessi giorni.  Una corsa ai ripari da parte dei brand che si distacca – e di molto- dalla celerità di contratti stracciati, si dice, per giusta causa, come quelli dello sport. Pagato per vincere, mollato se i risultati deludono. Cambia la solfa però se anche qui l’etica si fa sentire prepotentemente. Così Tiger Woods per le sue scappatelle crolla e lascia il primo posto di uomo sportivo più pagato del mondo (dai testimonial che adorano il bel vestire su campo 18 buche) quando nel 2009 perse in poche settimane il benestare di Gatorade come di Tag Heuer. Oppure gli happy end per chi da super quaterback quale Michael Vick si trova a vivere in una trama alla Snatch tra incontri clandestini di pittbull, che perde tutto il margine di successo e stima guadagnato, che non è più il giocatore più pagato della Lega  e che peraltro sta fermo quattro giri  prima di tornare al via–pulito e perdonato dagli americani- a disputare partite di ottimo livello. Tanto che le sue quotazioni, nonostante la fedina penale sporca, continuano a salire. Sugli sponsor ci stanno ancora lavorando Woods&co ci stanno ancora lavorando ma nello sport, lo ricordi il povero Mike The Situation, la memoria è più breve. E le maglie (sponsor) perdonano di grado le cadute di stile.