Attualità

I debutti di Parigi

Anthony Vaccarello da Saint Laurent, Bouchra Jarrar da Lanvin, Maria Grazia Chiuri da Dior, Pier Paolo Piccioli da Valentino: i debuttanti della Settimana della moda francese.

di Silvia Schirinzi

Dopo la settimana di Milano venata da un insolito ottimismo (non da tutti condiviso, però), la moda si è spostata a Parigi per riprendere fiato, nella fashion week conclusiva delle collezioni per la Primavera Estate 2016, tradizionalmente più lunga delle altre. La stagione appena conclusa sarà certamente ricordata come quella dei debutti importanti: sono stati tanti, infatti, i designer che hanno inaugurato la propria direzione creativa a capo di marchi che fino a poco tempo fa era guidati da qualcun altro.

FASHION-FRANCE-LANVIN

Meglio specificarlo subito: nessuno ha brillato particolarmente né c’è stata una prima collezione paragonabile, nell’effetto provocato sulla stampa specializzata e sui social, a quella di Hedi Slimane per Saint Laurent, Raf Simons da Dior o Alessandro Michele da Gucci. Vaccarello, che è stato il primo a scendere in passerella, ci ha tenuto a specificare che “Yves” era tornato, almeno nel logo: non più Saint Laurent Paris, quindi Saint Laurent, quindi Slimane, ma appunto Yves Saint Laurent. In realtà, Vaccarello ha preferito giocare sicuro, scegliendo di concentrarsi sul tubino disegnato da Yves (quello vero, non il logo) nel 1982 e, soprattutto, di non allontanarsi troppo dall’estetica del suo discusso predecessore, che aveva sì fatto arrabbiare tutti, ma aveva venduto anche un sacco di giubbini di pelle e stivaletti.

Se l’è cavata un po’ meglio Bouchra Jarrar, couturier francese cui è toccato il difficile compito di sostituire Alber Elbaz da Lanvin, storica casa di moda francese che nei quattordici anni di guida del designer di origini israeliana aveva trovato la sua identità contemporanea ed era perciò molto apprezzata. Anche qui, però, nessuno che si sia strappato i capelli dall’emozione.

La palma della collezione più discussa, comunque, va a quella di Maria Grazia Chiuri per Dior, che ha voluto portare la sua idea di femminismo all’interno di un marchio storicamente bollato come misogino (e odiato dalle femministe). D’altronde, Chiuri è pur sempre la prima “direttora” creativa nei settant’anni di storia della maison, nel caso qualcuno abbia ancora voglia di litigare sulle declinazioni. E poi inutile negarlo, l’essere femmina e femminile è probabilmente una delle discussioni culturali più interessanti in cui siamo impegnati oggi, e osservare come la moda ci si avvicini, la sfiori o se ne allontani è probabilmente uno dei motivi principali rimasti per guardare le sfilate. Abbiamo parlato – e parleremo – dei corpi delle modelle e del tipo di donna che immaginano, che sulle passerelle sembra essere più o meno sempre lo stesso con poche variazioni sul tema (più alte, meno alte, più sportive e quindi tornite oppure magrissime e adolescenti), mentre altrove quei canoni si sono sgretolati, allargati, confusi. Ancora, quel nuovo femminismo di cui parliamo da almeno cinque anni, ha assunto innumerevoli incarnazioni più o meno convincenti, troppo spesso nei volti di questa popstar o quella giovane attrice, e mai come in questo momento storico da più parti ci si preoccupa che la riduzione a slogan, a strumento di marketing intelligente, infine lo svilirsi del messaggio originario – la liberazione femminile, per inciso – sia la conseguenza ineluttabile della diffusione di massa del movimento.

Christian Dior :  Runway Alternative Views  - Paris Fashion Week Womenswear Spring/Summer 2017

La prima modella scesa in passerella per Dior era l’inglese Ruth Bell, la cui carriera ha subito un’impennata quando, non troppe stagioni fa, decise di rasarsi i capelli a zero: l’inglesina dai lineamenti dolci, identica alla sorella gemella May, era sparita per lasciar spazio a un volto solo apparentemente indurito dal buzz-cut, un po’ Kate Moss, un po’ Agyness Deyn. Maria Grazia Chiuri l’ha vestita da schermitrice e proprio la scherma era una delle ispirazioni della collezione: un omaggio all’Italia, che in questa disciplina ha avuto e ha atlete di primo livello, e ad uno sport antico ed elegante, che come nota Antonio Mancinelli su Marie Claire «è stato utile a ratificare la simbologia di una donna che deve proteggersi, difendersi e tutelarsi da un mondo che appartiene ancora agli uomini». Poi c’erano tante citazioni ai suoi predecessori, e anche se mancava (volutamente) la giacca Bar di Monsieur Dior, c’erano gli elastici brandizzati da John Galliano che, perché no, sono sembrati ammiccare (in un giro contorto che compiacerà solo chi la moda la segue ossessivamente) alla lingerie logata Calvin Klein, ovvero il marchio che Raf Simons dirige adesso. «We shoud all be feminists», dice la t-shirt più incriminata/incensata in questi giorni: sarà probabilmente l’unica cosa di Dior che molte ragazze potranno permettersi, non dovremmo esserne contenti? Insomma.

E se l’altra metà del duo, Pier Paolo Piccioli, ha fatto quello che doveva fare, ovvero Piccioli da Valentino, presentando una collezione che era un trionfo di rosa, a Maria Grazia, che ha già dimostrato di saper fare di più che vendere magliette, chiediamo allora di fare la Maria Grazia. Lo spiega bene Cathy Horyn, quando scrive «possiamo certamente dire che la creazione di abiti intelligenti e fatti bene per tutti i tipi di donna – magra o grassottella, moglie trofeo o manager in carriera – quello sì, che è un atto femminista». Non ci resta che aspettare la prossima stagione.

Foto Getty Images.