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Racconto dei Magazzini Allo Statuto: tra bandierine dei mondiali e giacche Anni '80, come non passare mai di moda restando sempre fedeli a se stessi.

di Manuela Ravasio

«Fabrizio Corona non fa più le presentazioni qui, no, è da un po’» , mi dice l’egiziano della security. Nell’edicola di fronte è appena uscito il suo Star, magazine di gossip con belle foto sgranate effetto scatti rubati, ma i veri scatti alla Ron Galella sono dentro ai Magazzini allo Statuto di Piazza Vittorio.  Con tre piani di negozio dove sono stipati abiti che  – da inizio Novecento e per volere della coppia Castelnuovo – stazionano nei reparti uomo-donna-bambino, la boutique monumentale (rinominata MAS in pieno Ventennio) è il supermarket del tessuto romano.  Cinesi con bancarelle confinanti a parte, il maxi store ha rischiato otto anni fa di essere convertito a centro commerciale meno popolare. Ma i Magazzini allo Statuto sono una bolla di tempo e si salvano sempre: anticipano, ritardano e fossilizzano le epoche, e alla fine evitano anche di essere svenduti. Loro che avevano previsto le ospitate al sabato pomeriggio, con Corona appunto, e che se ne fregano di come sono andati i mondiali e per l’estate propongono ceste cariche di cappellini in spugna con i loghi dei mondiali Sudafricani.

Qui, tra i quadri alle pareti, vecchi poster e opere cubiste incastrate tra gli scatoloni, scorre la vita della Roma abitudinaria, e l’unico parametro temporale lo danno quelli che ci entrano, altrimenti i MAS sono uguali a se stessi da quasi un secolo.  Per esempio, ultimamente sono presi in prestito da un nuovo pubblico con nuove manie low vintage – tendenza  che ha riportato in auge i costumi alla Sabrina Salerno – che ha permesso ai Magazzini di diventare il salotto di giovani in cerca di ispirazione post nu-rave. E l’età media della clientela si è abbassata precipitosamente. Molti di quelli che spulciano per comprarsi il costume da bagno da weekend a Sabaudia non hanno mai indossato un abito da comunione come quelli che coprono un’intera parete del reparto bambino. Perché alla loro età era già obbligatorio il saio per tutti e davanti a tulle e taffetà svenduti a 26 euro non avvertono la profanazione del sogno di ogni bambina che desiderava l’abito da comunione effetto meringa, e che in proporzione aveva costi da couture.

MAS mantiene intatto, a suo modo, anche quello spaccato di cerimonia anni Ottanta. In mezzo a questa nuvola di nuovi acquirenti la tradizione dei MAS è tenuta alta dal corpo-commesse e dei clienti abitudinari che non mollano «la pausa da MAS neppure se ti sei trasferito con orgoglio a Monti». Perché i Magazzini sono un posto furbo, fatto di desideri retrodatati che diventano attuali. Come quando basta entrare e ti trovi tra i piedi un enorme cesto pieno di occhialini da bambino stile Lennon, oppure quando una serie di casse metalliche mettono in mostra pile di espadrillas. Cosa ti manca per l’estate? Nulla; quelle di MAS lo sanno e te la fanno trovare in un affondo di kitscherie che mette tutti a nudo, come in spiaggia.  Superato l’angolo espadrillas, che emana zaffate di corda, ti trovi a Ostia, anche quando una voce registrata riempie  lo spazio “incontrate un gioiello a prezzo scontato nel reparto gioielleria”.

Cavalcare le mode, con in testa quel motto semplice che è la più importante lezione di fashion-marketing: non si butta via niente.

Il salone enorme che ti dà il benvenuto racchiude già tutta l’anima di MAS: le commesse in maglia rosso stinto raramente scambiano uno sguardo diretto con te, sistemano pile di bikini in lycra senza troppo convinzione; una delle giovani responsabili ci chiede solo di «non impiccià le commesse che lavorano» e tra tutte la prima che vorremmo importunare è lei, una signora sulla settantina la quale, come in ogni buon lido di Ostia che si rispetti, sta al centro della sala con un lungo abito-grembiule, appoggiata alla colonna. Coordina pause pranzo delle sottoposte, passa telefonate e sembra che da quella colonna non si sia spostata da tempo. Con quei gomiti ben puntati su una pila di canotte giallo canarino – le stesse che indossano i venditori di grattachecche al mare – è lei la boss dei MAS. La signora conosce benissimo il trucchetto che ha fatto di questo piccolo patrimonio romano un antesignano della moda entry price; cioè cavalcare le mode, con in testa quel motto semplice che, prontisti isterici della fabbrica dell’abbigliamento veloce del CenterGross di Bologna, dovrebbero segnare come la più importante tra le lezioni di fashion-marketing: non si butta via niente. Altro che rincorsa al Courreges del caso, qui la formula sfacciatamente intelligente è quella di avere riserve infinite di merce mai saldata, semplicemente tenuta e messa in vendita con gli stessi prezzi di 20 anni fa; quantità industriali collezionate nel tempo e proposte tutte nelle stesse aree tematiche (nell’intimo, per esempio, possono starci pantaloncini-pancera color carne di quando il nylon non era ancora ad appannaggio della lingerie, pescati con discrezione da due suore maldiviane in velo carta da zucchero, e – a pochi centimetri – audaci perizoma in scatolette genere vetrina di sexy shop).

Poi sali su, i giovani non ci sono più (sono rimasti a guardare le cartelle militari), attraverso una scala mobile stretta, che si capisce essere stata incastrata lì da poco, rispetto al lampadario brillocco che ci piove in testa. Perché anche un grande magazzino dalla clientela fissa si regge su controsensi scenici «che rendono questo posto piacevole, come fosse casa» ci confessa un’elegante cinquantenne, «e non mi riferisco solo agli equilibri architettonici, perché qui dentro trovi tutti. Io da quando mi hanno cacciato da Zara perché fotografavo un ammasso di vestiti vengo solo qui. Questo posto è di tutti. E’ meraviglioso, no?»

Mentre fotografiamo il tutto, un anziano commesso in completo tabacco osserva la scena e sorride: «Mi occupo del reparto abiti da uomo». Viso scarno, lo metteresti in un piano bar, elegantissimo com’è alle quattro di pomeriggio, nel bel mezzo del centro commerciale pozzettiano. È tra i pochi a non avere divisa, lo scambi per un manichino che porta i suoi anni – sessanta, settanta? «Se volete una mano ditemi, o vi arrangiate da soli?». Il piano è deserto, rispetto alle ceste da litorale del piano di sotto qui tutto è di un ordine assurdo; gli allestimenti di pantaloni appesi a onda in base ai colori sono uno spartano quanto dignitoso esempio di visual merchandising. E rispetto all’ingresso, qui sembra che l’orologio non lo guardi nessuno (anche se Buffon presta la faccia a uno scatolone di cravatte). C’è una piacevole sensazione di alta borghesia decaduta, al reparto uomo una fila di blazer in panno cammello sono ordinate da anni nello stesso modo – anche se per 17 euro nessuno le compra – e mentre molti si provano tute in acetato e bermuda verde menta, non ti verrebbe mai da dire che questo è stato il primo grande magazzino a proporre la vendita rateizzata. Lista nozze ma anche abiti da gala. «Quelle sono degli anni Settanta eh…no quella, la vede con le spallotte? E beh quella è degli Ottanta, si vede no? Le sta bene, è simpatica…bè,  so che sono di quegli anni perché io c’ero e pure loro», ci risponde serafica una commessa.

La buona pariolina che scende a comprare le divise ai domestici, si muove bene, tratta i prezzi per avere lo sconto e risale come se nulla fosse.

Mentre una coppia di coetanei inglesi spulcia tra loden blu, la nostra commessa si è già allontanata complice il canto di una sirena che qui è di casa e le chiede «no quelli sono da maturo, io devo fare un regalo da ragazzini».  «E allora questi», risponde la commessa spostandosi nel reparto tute di ciniglia anni Novanta. A muovere la richiesta è lei, un incrocio in biondo tra il corpo di Ivana Trump e il viso di Gina Lollobrigida: è Tina Troisi che in mezzo a uno stand di abiti scuri colora l’intero piano. È appena uscita dalla sartina:  «vengo da sempre qui, lei mi sistema tutto», e a guardare questa madame ex modella, labbra come caramelle, ciglia lunghissime e cotonatura biondo-flash, si intuisce che tutto quello che si trova da MAS in questo momento lei lo conosce e l’ha indossato, anche ora che porta skinny leopardati che rivelano un fondoschiena ridefinito contro il tempo («frequento tutti gli ambienti; a causa di mio marito che è primario anche quelli parecchio altolocati, devo essere sempre a posto»).

Forse l’unico reparto che non frequenta è quello interrato, dove la classe operaia non è andata in paradiso, si è solo ben posizionata nelle viscere di MAS. Il reparto abiti da lavoro rivela la biografia dei Magazzini allo Statuto: pochi commessi che ti seguono, cappelli da cuoco, divise da infermiera coloratissime che i giovani acquirenti modaioli dovrebbero collezionare in omaggio a Miuccia Prada di qualche stagione fa, e una pila di divise blu con ancora attaccate le iniziali di fabbriche che non esistono più. Lunghi camici da medici regalano uno scorcio da Policlinico sotto sequestro, ma la buona pariolina che scende a comprare le divise ai domestici la vedi, e qui si muove bene, tratta i prezzi per avere lo sconto e risale come se nulla fosse.

L’estate romana finisce con tre casse da supermercato, sopra numero al  neon, sedute tre ragazze e una responsabile che in versione military-pop imbusta per rendere rapida la fila; per ogni cassa ci sono tre basket items, furbi suggerimenti di desideri estivi dove affondano le mani  tutti: in uno agende dell’anno in corso, nell’altro bandane bianche e in quello a fianco bandiere italiane  e della Maggica Roma.

 

Dal numero 3 di Studio