Attualità

L’epoca Sonia Rykiel

Biografia, Parkinson, capelli rossi, maglioni da red carpet, polemiche: quanto conta ancora l'unica stilista francese rimasta.

di Manuela Ravasio

Nella moda ci sono solo due persone con i capelli rossi. Sono entrambe due donne mature, fiere di aver preservato quella chioma tanto da esibirla con acconciature leonine. Ed entrambe, a osservarle bene,  hanno i tratti di una Crudelia Demon disneyana. Una è Grace Coddington la madre di tutte le stylist, da 25 anni braccio destro di Anna Wintour a Vogue America. L’altra è Sonia Rykiel che, dopo Coco Chanel, è LA stilista francese. La Rykiel è stata a capo della propria maison per 40 anni: li ha spesi (quasi) tutti a sdrammatizzare la moda a colpi di pullover, ha cercato di schivare il titolo di “regina del tricot” abbracciando l’idea della figlia Nathalie di creare la prima linea di sex toys disegnati da una casa di moda e venduti come bijoux nella propria boutique. Ha smesso di essere direttrice creativa del suo brand quando scoccava un anniversario. Dietro a quell’addio c’era (anche) una bugia dolorosa.

Terminate le sfilate di questo settembre, la firma dell’International Herald Tribune, Suzy Menkes, ha scritto un lungo editoriale sullo stato delle maison, in particolare quelle francesi. La domanda che si è posta suona cristallina: perché i designer altamente affermati continuano a coprire la direzione creativa di maison centenarie invece di crearsi una loro griffe? La signora Menkes deve essersela appuntata mentre era in prima fila alla sfilata dell’anno (e della polemica) di Heidi Slimane come nuovo direttore creativo di Yves Saint Laurent, anzi, Saint Laurent e basta. Poche ore dopo la pubblicazione dell’articolo si è scatenato un dibattito ancora attivo a tema ego vs epoche, griffe cedute vs simboli mai passati di moda.

Sonia Rykiel sa  – e ha sempre saputo – di essere un simbolo mai passato di moda, e che a oggi non può avere luogo una successione d’effetto come quella di Slimane. La sua griffe è lei  anche quando un segreto -e la stanchezza di portarlo con sé – le ha fatto cedere il posto prima alla figlia Nathalie, ex modella con argute strategie di marketing (vedi oltre alla linea di sex toys quella di accessori e profumeria) poi a Geraldo da Conceicao (un passato da Miu Miu e YSL che ha debuttato la scorsa stagione ma che non sarà riconfermato). La riprova del suo essere pietre miliare della moda è arrivata questa estate, quando tutti aspettavano gli show che avevano per protagonisti gli uomini chiave Raf Simons e Hedi Slimane. Nelle stesse ore Sonia attirava l’attenzione dal fashion biz senza disegnare nulla, ma proseguendo la promozione della sua biografia, N’oubliez pas que je joue, dove racconta la sua nuova professione, quella di combattere “la putain de Parkinson” come ha soprannominato madame Rykiel la malattia che 15 anni fa l’ha colpita e di cui lei non ha detto nulla fino all’uscita di questo best seller .

«Amo ancora molte cose: guardare le partite di tennis, le feste, la campagna, il mare, ballare, i ragazzi. Si mi piacciono ancora i ragazzi» ha rivelato la stilista al Guardian a proposito del libro dove racconta di quel 66 esimo compleanno in cui il Parkinson è  entrato nella sua vita. Nessuno ha sospettato nulla, l’icona non mollava la sua griffe: anzi, usciva dagli show divertita come non mai. L’ha tenuto nascosto su consiglio del proprio medico e ha continuato a dare il suo contributo anche quando nel 2007 non era più lei a capo della compagnia. Girava in atelier indossando blazer e pantaloni di crêpe neri «per quando mi sentivo molto stanca». La divisa per i giorni no era un comodo tailleur, scelta coerente per lei che tre primavere prima di quella del ’68 apriva una boutique in Rue de Grenelle a base di poor boy sweater come la critica definirà i suoi maglioni dal taglio morbido.  Una soluzione di comodo che ha permesso a Sonia di diventare la regina indiscussa della maglieria in tempi di sola seta. «Provo a indossare il verde scuro, il marrone scuro, e anche il blu scuro. Ma preferisco sempre il nero» ama ripetere Sonia che inventerà il colore senza mai indossarlo.

La madre russa andava a prenderla a scuola con i sacchetti della boutique Aux Enfants du Bois, embrione del boho-style che sarebbe nato 50 anni dopo. Ed è dall’infanzia che arrivano i suggerimenti per i maglioni che in pochi anni finiscono sulla Croisette indossati dalla belle de jour Catherine Deneuve mentre Sonia a Parigi conia la parola démodé.  Prima che il pop lasci l’arte per insinuarsi ovunque, la stilista stampa maxi scritte su lana mohair. Anni ’70, il muro di seta nera è infranto: le maison della Rive Gauche con a capo promettenti designer maschi lavorano per creare silhouette altere e snob, la Rykiel continua a concepire la moda con la stessa intenzione che l’ha portata nel ’62 a creare abiti comodi perché non sapeva cosa indossare mentre era incinta. Sceglie la bella borghesia del Marais, quella che poi Isabel Marant erediterà. In questi 15 anni di incubo silenzioso Sonia Rykiel ha osservato il mondo esplodere nelle sue nuove forme: le evoluzioni digitali per sfamare un pubblico che non acquista ma guarda. Lei lo aveva già intuito quando nel 1975 chiede a Karl Lagerfeld di filmare la sua sfilata. Per anni sarà l’unica a cui è venuta l’idea.

Adolescente, a casa si parlava più di politica e scultura che di puntaspilli e strascichi: la moda per Sonia diventa un business senza che diventi un’ossessione. E per ricordar(se)lo basta osservare la fine delle sue sfilate, quando tutte le modelle escono come Lolite impazzite e saltano, ridono, ballano. C’è molto autoironia in questo brand: celebre la pelliccia rossa fatta sfilare su pelle nuda che altro non è se non la pettinatura trapezoidale della Rykiel. Il gotico si insinua a Parigi, la Rykiel propone il suo trench “perestrojka” in pvc trasparente. Il colosso svedese H&M cerca spunti dal lusso, la stilista offre i suoi abiti multirighe in maglia con Tour Eiffel stampata. «L’unica cosa che è cambiata è che mi stanco rapidamente» ammette parlando della putain de Parkinson. La sua maison ora appartiene per maggioranza al fondo Fung Brands con sede a Hong Kong, dove i suoi poor boy sweater sono pronti a infrangere il minimalismo orientale. Una battaglia che la Rykiel ha già combattuto in prima linea e vinto.

 

Illustrazione di Giorgio Di Salvo