Attualità

La lana d’estate

Le mezze stagioni esistono: e a dichiararne lo stato di salute è la lana merino, il vero termoautonomo dei nostri armadi.

di Manuela Ravasio

Signorine in babydoll (di lino) che si adagiano su coprimaterasso di lana merino. Polpacci affusolati (e nudi) che scivolano in stivaletti di pelo nati in Australia e migrati ovunque. La lana rimane ad appannaggio dell’inverno: pena la caduta di stile e la sensazione di essere fuori luogo. Televendite e celebrity hanno infatti alimentato il mito dei riccioli di lana merino quale vizio da trascinarsi nelle stagioni i cui climi sono meno rigidi. Ma abbiamo davvero bisogno dell’acquisto rateizzato della coperta auto-termica? Un passo indietro. Il vello delle pecore merino è per sua natura termico, quindi nasce per essere un no-season. Più sottile delle classiche lane, quella merino ha la capacità di adattarsi alla temperatura corporea e quindi essere, all’occorrenza, molto calda o traspirante. Indossare la lana una volta smessi i panni invernali è diventato un sacrilegio specie se si pensa alle imprese ciclistiche dei Tour de France degli eroi: aderenti pantaloncini e magliette zippate che al solo vederli provocano ricordi orticanti. Per fortuna, verrebbe da pensare, che cultori del fresco-lana e insospettabili collezionisti di magliette Bianchi Cicli come Paul Smith, hanno messo le mani sul prossimo Giro d’Italia realizzando maglie hi-tech (e zero % lana).

Eppure: in un’era stilisticamente votata al neoprene, termosaldature, traspirazioni digitali e infinite varianti con suffisso “hi-tech”, un lanificio storico, rilancia la quintessenza della lana merino. Nel 2010 infatti Reda, l’unico lanificio al mondo a fregiarsi di certificato EMAS (produzione e sostenibilità rigorosamente a braccetto, dall’inizio alla fine) dalla sua Valle Mossa nel biellese parte per la volta della Nuova Zelanda dove possiede tra le più grandi tenute di pecore merino. E lì, dove è in atto la rivoluzione del trail con intensi percorsi sportivi e naturalistici, nasce l’intuizione: realizzare la prima linea di activewear interamente in lana merino e chiamarla, non a caso, Rewoolution. Ampiamente sfruttata sotto la tuta da sci, la maglia in lana merino è trattata in modo da risultare seta (anche nella sensazione di indossarla), ma è nell’estivo che si palesa la quintessenza della lana più sottile del mondo: polo merino versione piquet, t-shirt aderenti per mountain bike, pantaloncini per corse urbane. Non pizzica, traspira, protegge dai raggi UVA e diventa radical-chic con il motto “il clima non mi fa né caldo, né freddo”.

Togliamoci dagli occhi le televendite di cui sopra, e accettiamo il fatto che la lana no-season sia nel dna italiano. A ricordarcelo (o riassumercelo) è Federico Poletti che per l’inizio di primavera raccoglie la storia dei maglioni (e derivati) nel libro Maglifico! 50 anni di straordinaria maglieria Made in Italy (edizioni Skira) un sussidiario dove, tra fresco lana e cashmere, il vello d’oro ne esce come colonna portante della sartoria italiana, anche quando diventa un successo grazie a menti d’Oltralpe, prime tra tutte Sonia Rykiel, la madame della maglieria che con i suoi chemisier merino ha dato alle donne la sensazione tricot da indossare anche d’estate. La lana lascia traspirare anche l’economia della moda: ne è un esempio l’International Woolmark Prize, quest’anno vinto da Christian Wijnants, premiato da Diane Von Furstenberg e Victoria Beckham, per la capacità di nobilitare il “filo più puro del mondo”. La storia non è certo nuova visto che il premio, nato nel 1936 nelle terre australiane dove la merino abbonda(va), ha visto tra i suoi Yves Saint Laurant e Karl Lagerfeld. Due cha al neoprene hanno lasciato poche chance. Meglio il termoautonomo, naturale.

IL PERSONAGGIO. A diciott’anni è nelle prime file del secondo futurismo, poi sovrimpressioni ed elaborati grafici, psicologia della forma e teorie percettive completano l’educazione dell’architetto pavese. Fra i primi a utilizzare i sistemi digitali per distorcere le immagini, Franco Grignani è stato tra i nomi di culto del primo congresso sulla comunicazione umana, il Vision 65. Le sue sollecitazioni “artificiali” si fanno sentire nel 1964 quando realizzazione il logo del brand internazionale Woolmark:  il gomitolo stilizzato diventato icona riconosciuta da tutti: è una rivisitazione del nastro di Möbius dove inizio e fine spariscono per un ambiguo gioco di percezione ottica.