Attualità

Il nuovo ordine della moda

I molti avvicendamenti nelle direzioni creative dei grandi marchi, i nuovi eventi slegati dalle fashion week. L’epoca dei grandi stilisti visionari potrebbe essere finita.

di Silvia Schirinzi

«Conoscete la regola della moda: uno è una casualità, due una coincidenza, tre un trend. E quattro?». Così Vanessa Friedman sul New York Times commenta la notizia di Stefano Pilati che lascia la direzione artistica di Ermenegildo Zegna. Anche lui dopo tre anni, come già Raf Simons e Alexander Wang nel 2015. Se ne vanno anche Brendan Mullane, che si separa da Brioni (di proprietà Kering), e Alessandro Sartori, che ha scelto la strada del conscious uncoupling con Berluti (LVMH) per poi prendere il posto di Pilati da Zegna. E poi, certo, c’è sempre l’inspiegabile faccenda di Alber Elbaz, che se ne va dopo 14 anni da Lanvin.
Elbaz a parte, che sia quasi una nuova tendenza per i designer rimanere all’incirca tre anni e poi fuggire via, si chiede Friedman? Com’è possibile costruire l’identità di un marchio, conquistare nuovi e vecchi clienti in così breve tempo? Tutte domande legittime che, per ora, rimangono senza risposta. D’altronde, l’andirivieni di direttori creativi a capo dei grandi marchi di moda è diventato una sorta di fantacalcio, con tanto di toto scommesse su chi va dove e quando. Raf Simons da Calvin Klein? Hedi Slimane lascia Saint Laurent? Stefano Pilati andrà da Dior? Phoebe Philo lascia Céline e va da Azzedine Alaïa, come suggerisce Julie Zerbo di The Fashion Law?

Balenciaga : Runway - Paris Fashion Week Womenswear Fall/Winter 2015/2016

Supposizioni a parte, quel che c’è di certo dietro ai repentini cambi di guida, alle assunzioni lampo e ai ritiri strategici è un profondo sommovimento del sistema, che oggi sta faticosamente abbandonando il vecchio paradigma per abbracciarne uno (o più di uno) completamente diverso. Non è chiarissima la direzione in cui si sta andando, ma è possibile fare qualche supposizione su come oggi si possa traghettare nel futuro un marchio con alle spalle un heritage importante.

L’immagine romantica dello stilista immerso nella ricerca e nella progettazione, lo sappiamo, non rispecchia quella del tempo corrente. Il direttore creativo ha piuttosto il compito di supervisionare l’intero processo che sottende alla creazione di una collezione, alla sua realizzazione e promozione, coadiuvato da uno staff di persone spesso molto numeroso che si occupa di portare a termine tutti i suoi input. E a fronte della mole di prodotti da immettere sul mercato e alle relative strategie di comunicazione, è facile comprendere lo stress del portare a casa i risultati, misurati dagli implacabili trimestrali. Lo ha descritto bene Raf Simons nell’ormai mitologica intervista a Cathy Horyn su System Magazine, quando parlava di mancanza di tempo per l’incubazione delle idee.
Qualcosa però sta cambiando, almeno nel ripensamento delle fashion week: solo lo scorso mese, Saint Laurent ha scelto di non presentare la collezione dell’uomo a Parigi, ma di indire un grande evento il prossimo 10 febbraio a Los Angeles. Che sia l’addio in grande stile di Hedi Slimane? O piuttosto il primo segnale di una nuova modalità di presentare le collezioni?

Qui siamo ancora nel campo dei pronostici, ma nel frattempo Burberry ha annunciato le prime, importanti decisioni in merito: è notizia di questi giorni infatti che, a partire da settembre 2016, il marchio guidato da Christopher Bailey presenterà le collezioni uomo e donna in un unico grande evento che si terrà due volte l’anno durante la settimana della moda di Londra. Come specifica Bof, Burberry non sfilerà più durante la rassegna di moda maschile della capitale britannica, ma sarà comunque presente. Se si pensa al fatto che nel 2013 Burberry uomo ha lasciato Milano dopo dieci anni per tornare “a casa” e dare una significativa spinta all’allora nascente London Collections:Men, si comprende quanto il paradigma di cui sopra sia soggetto a continui stravolgimenti, spesso anche contraddittori.
Ci sono delle parole importanti che ricorrono nell’annuncio di Burberry: una è seasonless, tanto per cominciare. Le nuove collezioni, che si chiameranno semplicemente February e September, sono pensate per includere tutti i consumatori globali e non solo a quelli occidentali, legati alle stagioni della Primavera-Estate e all’Autunno-Inverno. Sarà possibile acquistare i capi e gli accessori subito dopo lo show mentre Prorsum, London e Brit verranno riuniti sotto l’unico cappello di Burberry. È un segnale molto significativo, intanto perché Bailey è un direttore creativo che è allo stesso tempo CEO e, insieme all’ex chief executive Angela Ahrendts (ora a capo della divisione retail di Apple) ha trasformato un marchio storico di trench in un megabrand “olistico”.

L’effetto domino non ha tardato a farsi sentire: anche Tom Ford ha annunciato di aver annullato la presentazione prevista per la settimana della moda di New York di febbraio, rimandando tutto a settembre, quando si potrà offrire ai consumatori una collezione che sarà già acquistabile: “Viviamo con un calendario che appartiene a un’altra epoca” – ha commentato il designer. Nella stessa direzione si muove anche Vetements, che annunciato per voce del CEO Guram Gvasalia -fratello di Demna- che il marchio di base a Parigi sfilerà con un’unica collezione uomo e donna, due mesi prima del tradizionale calendario delle sfilate. “Spero che altri seguiranno il nostro esempio” – ha detto Gvasalia.

L’epoca dei grandi stilisti visionari, si è detto da più parti, è finita

Si tratta delle prime, concrete risposte a un vecchio problema di sistema: l’inadeguatezza della settimana della moda nell’era digitale, che ha azzerato le tempistiche, le modalità esclusive e in molti casi lo stesso senso di eventi che nel passato erano stati pensati strettamente per gli addetti ai lavori. Com’è pensabile oggi presentare una collezione e mantenere vivo l’interesse del pubblico se quegli stessi vestiti arriveranno nei negozi sei mesi dopo? Il ritmo folle imposto dal fast fashion ha obbligato i marchi del lusso a una rincorsa che ha finito per penalizzarli, ma ora sembra sia arrivato il mBalenciaga Coatomento della razionalizzazione degli sforzi.
Esaudire il desiderio immediato dei clienti, eliminare la necessità delle pre-collezioni, bloccare la sovrapproduzione e impedire che i modelli visti in passerella vengano riproposti in tutte le grandi catene d’abbigliamento low-cost prima che quelli originali arrivino nei negozi: questi gli obiettivi del nuovo ordine. Non ultimo, impedire che i designer vengano schiacciati dalla pressione dei ritmi insostenibili. L’epoca dei grandi stilisti visionari, si è detto da più parti, è finita: i marchi si sono trasformati in grandi navi che hanno bisogno di capitani coraggiosi al comando, opportunamente business-oriented, il cui impatto sullo “stile” (inteso in senso classico) del brand sarà sempre più slegato dagli abiti che disegnano, ma riguarderà invece l’universo di significato che saranno in grado di costruire attorno ad essi. Questo cambierà inevitabilmente come si insegna fashion design nelle scuole di moda, e cambierà –come già sta facendo- l’editoria di settore.

Si prenda Balenciaga, per esempio: qui si è scelto uno dei designer più interessanti delle ultime stagioni, il già citato Demna Gvasalia. Era già successo con Alexander Wang, certo. Solo che, tre anni dopo, la concezione di “designer giovane e interessante” è cambiata: non basta avere un proprio marchio e un forte appeal sui mercati esteri, ma è necessario anche saper attirare l’attenzione attorno a un progetto. E cos’è Vetements se non l’evento più hype della settimana della moda parigina? Un collettivo di designer anonimo con una sola spokeperson riconosciuta, un entourage di fotografi, stylist e modelli (pensate a Lotta Volkova e Paul Hameline) che sono dei piccoli fenomeni di Instagram, sfilate con un casting estremamente identitario e vestiti che abbiamo già visto, ma che presentati così piacciono un sacco. Et voilà, la nuova ossessione è servita.
E chi già rimpiange quello che è stato Balenciaga per la moda o l’era Nicolas Ghesquière-Marie-Amélie Sauvé (oltre a rifugiarsi in Louis Vuitton), potrà consolarsi con la grande mostra Game Changers. Reiventing the 20th century silhouette, che inaugura al Mode Museum di Anversa il prossimo 18 marzo. Poi ci sono anche i casi di Gucci e Valentino, ovvero quando il “braccio destro”, che conosce a fondo le dinamiche del marchio e ci lavora da molti anni, spesso a capo del reparto accessori, diventa il responsabile dell’intera immagine del brand: se si hanno in casa persone come Maria Grazia Chiuri e Pier Paolo Piccioli o Alessandro Michele, una soluzione azzeccatissima. Come dimostra l’ultima sfilata couture di Dior, però, una fortuna non così comune.

Immagini: in copertina e testata: Christopher Bailey sulla passerella del Burberry Prorsum show alla London Fashion Week del 2014 (Tim P. Whitby/Getty Images); Alexander Wang alla sfilata Balenciaga della Paris Fashion Week 2015 (Pascal Le Segretain/Getty Images); la cover di Business of Fashion; una modella indossa capi Balenciaga durante il programma tv Fashions From Paris. (Terry Fincher/Keystone/Getty Images)