Attualità

Il grande esodo

Loro Piana che trasloca in Francia, alla corte Lvmh di Arnault, è l'ultima meta della "fuga" del Made in Italy dall'Italia. Non chiamiamoli furti, però, per favore.

di Marta Casadei

Il Viminale ci ha avvisato per tempo: quest’estate non ci sarà nessuna giornata da bollino nero sulle autostrade del Belpaese. C’è la crisi; gli italiani hanno pochi soldi in tasca; la voglia di spendere per fare un viaggio ci sarebbe pure, ma gli spettri esattoriali dominano i sogni – sarebbe meglio dire gli incubi, in effetti – di molti, troppi, connazionali. Quindi niente interminabili serpentoni di macchine: meglio, direte voi, che ricordate ancora le 10 ore in fila sulla Salerno Reggio Calabria centellinando in quattro mezza bottiglia di acqua (ormai calda, ci mancherebbe).

L’incipit riguarda la viabilità, ma questo articolo va ad analizzare un altro tipo di traffico: di capitali, marchi, manodopera. Un traffico che va a pungere nel vivo l’orgoglio di un Paese, il nostro, che da un centinaio di anni e più ha fatto del manifatturiero il proprio fiore all’occhiello. E oggi vede i più grandi protagonisti di quello stesso settore ingranare la prima e partire. Adieu.

Traslando l’affaire automobilistico del bollino nero al settore moda-lusso, infatti, la situazione è decisamente affollata. Soprattutto se si guardano le strade – che non sono fisiche, ovviamente, ma perlopiù finanziarie – che portano fuori dallo Stivale. L’esodo che più ci riguarda da vicino è quello delle grandi aziende che hanno fatto la storia del made in Italy nel settore tessile, moda, pelletteria e calzature – ma anche design e arredamento – e oggi, complici acquisizioni da svariate centinaia di milioni di euro, vanno ad ingigantire il giro d’affari di quelli che a tutti gli effetti sono già i giganti del lusso mondiale.

L’ultimo caso in ordine cronologico, che ha sconvolto l’opinione pubblica anche perché è il secondo notificato nel giro di una settimana, è quello di Loro Piana: l’80% dell’azienda, sinonimo di cachemire made in Italy prodotto nel Biellese, è stato ceduto al gruppo francese Lvmh, guidato da Bernard Arnault. Niente lacrime, niente tragedie, solo – pare – reciproca soddisfazione: la Loro Piana è un’azienda che gode di ottima salute sia in termini di immagine sia di conti – nel 2012 ha fatturato 630 milioni di euro, in crescita del 13,1% rispetto al 2011 – e non una nave sulla via del naufragio. In Lvmh Sergio e Pier Luigi Loro Piana sembra non abbiano trovato un’ancora di salvezza, ma un contesto di valorizzazione: «Le possibilità di sviluppo e sinergia tra il nostro gruppo e quello francese – ha detto Pier Luigi – credo che porterà lavoro, soprattutto nella parte della filiera che va dalla materia prima ai tessuti, mentre nell’ambito della distribuzione certamente i francesi consentiranno di accelerare lo sviluppo dell’azienda»

Lvmh, infatti, è una “scatola” da grandi numeri: 28,1 miliardi di euro di ricavi nel 2012, contiene alcuni tra i più importanti marchi del lusso a livello mondiale tra cui spiccano Louis Vuitton, Christian Dior, Moet et Chandon, Veuve Clicquot, Sephora. A nutrire questo portfolio sono stati, negli ultimi anni, svariati marchi italiani di prestigio: da Fendi, acquisito definitivamente nel 2001, ad Acqua di Parma, da Bulgari, rilevato nel 2011 con un’operazione di scambio azionario da 4,3 miliardi che ha messo nelle mani della famiglia Bulgari il 3,5% del gruppo Lvmh, fino a Emilio Pucci,  a Berluti e a Cova, il cui acquisto è stato annunciato ufficialmente pochi giorni fa ed è attualmente oggetto di una diatriba con il Gruppo Prada.

Il pianeta Arnault non è l’unica meta dell’esodo delle grandi aziende del lusso italiano: il gruppo francese Kering (ex PPR) vanta nel suo portfolio griffes nostrane del calibro di Gucci, Bottega Veneta, Sergio Rossi, Brioni e, acquisito di recente, Pomellato. Nel 2012 Valentino è stato comprato, attraverso un veicolo finanziario chiamato Mayhoola for Investment, dalla famiglia reale del Qatar per 700 milioni di euro mentre nel 2011 Ferrè – quella sì un’azienda in fortissima crisi – è stato rilevato dal Paris Group di Dubai. Nessun dubbio: l’esodo c’è stato, c’è ancora. E molto probabilmente continuerà ad esserci.

Lacrime di coccodrillo a parte, la situazione impone una riflessione più attenta su cosa sta davvero accadendo: le aziende passano nelle mani dei grandi gruppi per rimanere competitive, soprattutto perché la competitività oggi si gioca sui grandi mercati internazionali e implica grossi investimenti volti a strutturare reti di punti vendita che vadano a servire in modo capillare i mercati di cui sopra. Che, per inciso, sono lontani, ostici e implicano uno sforzo economico non sempre affrontabile da una singola realtà.

Ciò che conta, per guardare il bicchiere mezzo pieno, che in questi casi non fa mai male, è che i grandi gruppi – salvo qualche esempio – non sembrano voler mettere in discussione le radici delle aziende italiane che rilevano. In che modo? In primis mantenendo la produzione in loco. Toscana, Veneto, Piemonte rimangono la culla del made in Italy quando si parla di pelletteria, calzature, cachemire e realtà come Gucci sono un esempio lampante del fatto che il passaggio oltralpe non implica di per sé un trasferimento della produzione. Non è finita: la liason tra i grandi gruppi e la manifattura italiana – che è davvero un’eccellenza ed è riconducibile a un tessuto di piccole e medie imprese che lavorano con i top player con contratti più o meno esclusivi – si è fatta sempre più intensa e ha portato marchi del calibro di Louis Vuitton ad aprire in Italia stabilimenti a proprio marchio, nella fattispecie in Veneto, a Fiesso d’Artico, per la produzione di calzature di lusso.

Sarebbe bello che ci fosse un’alternativa alle continue fughe: veder realizzata una realtà fatta di grandi poli del lusso con sede in Italia guidati da imprenditori italiani – non è che non esistano: ci sono – che creano lavoro e attirano capitali dando voce alle eccellenze nostrane a 360 gradi (e contribuendo anche all’incremento del Pil, perché no) sarebbe il migliore degli scenari possibili. La realtà è un po’ diversa. E archiviare ogni capitolo di questo esodo nella cartella “furti”, non è forse la prospettiva più corretta.