Attualità

Dopo Anna Wintour

Mentre le voci sulla possibile uscita della potente direttrice da Vogue Us continuano a circolare, uno sguardo alla sua eredità e al suo irripetibile personaggio pubblico.

di Silvia Schirinzi

Quello che è sicuro è che, a un certo punto, Anna Wintour dovrà lasciare la direzione di Vogue Us, resta da stabilire come e quando, di preciso. All’inizio di aprile un articolo di Page Six dava già la timeline: la direttrice sarebbe rimasta in carica fino al prossimo luglio, il tempo necessario a supervisionare l’imminente Met Gala e a concludere il numero di settembre, il più importante e voluminoso dell’anno. Poi (immaginiamo) le porte del suo ufficio al World Trade Center le si sarebbero chiuse alle spalle e, senza esagerare, una nuova era sarebbe iniziata da Condé Nast. A trent’anni esatti dall’inizio del suo regno, turbolento ma incontrastato, Anna Wintour avrebbe finalmente lasciato il giornale che ha plasmato a sua immagine e somiglianza, come solo qualcuno nato nel 1949 avrebbe potuto fare.

Nell’articolo vengono anche dispiegate le strategie di uscita, ricordandoci che solo l’anno scorso sono andati via anche Graydon Carter (a capo di Vanity Fair da venticinque anni) e Cindi Leive (da Glamour da 16 anni), sostituiti rispettivamente da Radhika Jones e Samantha Barry. Pensionamenti eccellenti, potremmo chiamarli, e il prossimo nome sulla lista non poteva che essere, inevitabilmente, il suo. Ha già concordato la sua intervista di congedo al New York Times, scrive Page Six, salvo poi essere smentito dal Times stesso, nella persona di Vanessa Friedman. Nessuna intervista in programma, nessun dubbio editoriale sul “Come lasciare Vogue dopo trent’anni di monarchia assoluta, by Anna Wintour” (Leive l’ha scritto eccome, invece, come a dire tutti tranquilli che è stata una mia scelta), infine nessuna uscita di scena, almeno nell’immediato, e tanto di smentita ufficiale. Sembra il solito balletto di pettegolezzi che precede un cambio di direzione creativa nei marchi del lusso, ma bisogna ammettere che quelle sono cose che interessano più agli addetti ai lavori e agli appassionati, mentre il livello di notorietà raggiunto da Anna Wintour, in particolare dopo Il diavolo veste Prada del 2006, la rende a tutti gli effetti un’icona nella cultura popolare.

Di lei sappiamo tutto: che ama le pellicce e che non cambia taglio di capelli da quando aveva quattordici anni, che gioca a tennis alle cinque ogni mattina e che possiede una collezione di sandali nude per ogni sfumatura della sua pelle, che gli occhiali da sole che non si toglie mai in realtà sono da vista (lenti scure per nascondere lo spessore, pare, perché meglio apparire cafoni che ammettere un difetto fisico), che è arrivata Vogue nel 1988 nella stessa settimana in cui Franca Sozzani arrivava da Vogue Italia, che è stata la prima a mettere le celebrity in copertina (di fatto a costruire il profilo pubblico di moltissime celebrity), che ha deciso la carriera di altrettanti designer e indirizzato le loro collezioni e scelte future, che ha terrorizzato centinaia di stagisti fino a mandarli al pronto soccorso e selezionato alcuni tra i migliori autori, fotografi, modelle e stylist che oggi lavorano nell’industria. Anna Wintour non è (solo) una donna al comando, Anna Wintour è un intero sistema di potere, che muove soldi e persone, costruito e mantenuto negli anni con ferrea ambizione e scrupolosa disciplina. Non ama le persone vestite tutte di nero né quelle sovrappeso, una volta ha spedito André Leon Talley a un ritiro di Dieta Dukan per farlo dimagrire mentre per la sua prima copertina di Vogue, visto che alla modella Michaela Bercu non entrava più la gonna del completo di Christian Lacroix perché era un po’ ingrassata, le fece indossare un jeans di Guess. Lo stampatore la richiamò immediatamente per chiederle se non si fosse sbagliata a scegliere la foto di copertina.

Figlia di Charles Wintour, editor del London Evening Standard dal 1959 al 1976, sorella di Patrick Wintour, firma politica del Guardian, non poteva che lavorare nei giornali. Inizia la sua carriera da Harper’s & Queen (che diventerà Harper’s Bazaar) a Londra, nel 1980 si trasferisce a New York dove colleziona esperienze da Viva e Savvy, posti nei quali decide che le nuove donne in carriera saranno le sue lettrici di riferimento. Ritorna a Londra come direttore di British Vogue nel 1985, ma nel 1987 è di nuovo a New York, da House & Garden, e solo dieci mesi dopo è a capo di Vogue Us, al posto di Grace Mirabella. Nel suo lungo regno, si è inventata cose come il gala del Met, che nel 2014 le ha intitolato le sale del Constume Institute, ha scrutinato migliaia di giovani attrici per le sue copertine e ha consolidato il rito hollywoodiano del red carpet, legandolo indissolubilmente al mondo della moda. Era lei a scegliere chi indossava cosa e molto spesso era Marchesa, il marchio dell’ex moglie di Harvey Weinstein, Georgina Chapman.

Ed è proprio su Marchesa, però, che il vecchio sistema pare essersi incrinato. Nel suo editoriale sul numero di giugno, fra le poche cose che Wintour regolarmente scrive, la direttrice ha pubblicamente preso le difese di Chapman, definendola «una brava figlia e un’ottima moglie» e sostenendo di essere «fermamente convinta che Georgina non avesse idea del comportamento di suo marito e incolpare lei per il comportamento di lui, come molti in quest’era di gladiatori digitali hanno fatto, è sbagliato». E come darle torto. Dare la colpa alle mogli per il comportamento dei mariti è certamente ingiusto e denigratorio, ma come ha scritto Stella Bugbee su The Cut, sono tante le domande che quell’editoriale lascia senza risposta. Per chi sta chiedendo perdono Wintour? Per Chapman, che ha beneficiato del potere del marito per avere diretto accesso alle star –  e qui sospendiamo il giudizio sulle dinamiche interne alla famiglia, perché non riguardano il dibattito pubblico – o per se stessa, che quella regola “giovane attrice sul red carpet/copertina di Vogue” se l’è inventata, ritagliandosi a forza di paillettes e strascichi un posto in un’industria pur sempre dominata da uomini? Che senso ha, infine, “salvare” Marchesa e Chapman, che non è certo un autore di moda come il pure disgraziatissimo John Galliano, che la stessa Wintour contribuì a riabilitare dopo l’affare degli insulti antisemiti, se non mantenere il punto su un vecchio modo di intendere e gestire il potere? I tempi in cui bastava un paio di jeans per sembrare rivoluzionarie, d’altronde, sono irrimediabilmente passati. Oggi serve molto di più o forse, ancor più prosaicamente, qualcosa di diverso.