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Cambiare i connotati al proprio brand: come farlo e come NON farlo

di Michele Boroni

Se è vero che un diamante è per sempre, il brand talvolta non lo è.

E non sto parlando dell’atavica infedeltà del consumatore, sempre alla ricerca di una scelta di consumo che sia money to value, bensì del brand stesso che, nel corso del tempo, è costretto a modificare i propri valori di riferimento, la propria immagine o, addirittura, il proprio nome. Accade spesso che un’azienda muti il proprio logo per rendere il font o il visual più fresco e aggiornato: spesso gli spostamenti sono impercettibili all’occhio disattento, a volte invece il mutamento è radicale.

E’ il caso ad esempio di Pepsi che, in perenne ricerca di un’identità cool per catturare il pubblico giovane che non si riconosce nell’immagine buonista della Coca Cola, ha praticamente rivoluzionato il logo ben quattro volte nel giro di 20 anni, sopportando tutti i costi di produzione che generano decisioni come questa. Ci sono poi i casi in cui il cambiamento del logo non corrisponde a una semplice operazione di restyling, ma una precisa mutazione strategica del brand. Starbucks, lo scorso anno, per celebrare il 40° anniversario e l’uscita dalla crisi che l’aveva colpita alcuni anni prima, ha decisamente modificato il proprio logo, eliminando il nome della marca e la scritta “Coffee” che circondavano la sirena: l’obiettivo per l’amministratore delegato Howard Schultz era garantire al brand una maggiore libertà e flessibilità di innovare ed esplorare nuovi prodotti e nuovi canali di distribuzione. La scelta, non condivisa con i fan del marchio, ha suscitato un mare di reazioni sul blog aziendale, non tanto per l’eliminazione di coffee, quanto per la scomparsa del nome, forse perché il brand non ha ancora la forza o le peculiarità di marchi di Nike o Apple per poter fare a meno del nome. Per non parlare di Gap che, dopo le mille proteste a seguito della comunicazione del cambio di logo, ha dovuto fare marcia indietro. Tutti questi casi ci dicono che il logo non è semplicemente una forma grafica, ma spesso è l’essenza e l’identità stessa di una marca e che le persone, spesso più consapevoli dei blasonati manager, trovano in esso un mondo di significati e valori difficili da estirpare.

(Se amate il tema del cambio di logo, allora guardate questi venti casi raccontati con dovizia di particolari.)

 

Il cambio di nome del brand è, se possibile, ancora più complesso da gestire. In molti casi la necessità non è tanto quella della freschezza grafica, bensì della rilevanza del brand: nasce quindi l’esigenza di modificare nomi e connotati del marchio al fine di generare customer equity e loyalty. Ci sono aziende – specie quelle che operano in settori come la moda o l’arredamento – che sono nate anticamente come maison o laboratori, senza quindi una precisa logica di marketing, e quindi l’operazione di rebranding è di semplificazione del nome: Chanel è stata fondata nel 1909 come The House of Chanel, Dior nel 1946 come Christian Dior e Prada nel 1913 come Fratelli Prada. Di solito queste operazioni funzionano, se fatte nei tempi giusti. A volte le aziende, per continuare ad essere rilevanti, devono necessariamente tracciare un segno di discontinuità con il passato, altre ancora devono invece guardare al passato per trovare nuove ispirazioni. Alcune settimane fa Hedi Slimane, nuovo direttore creativo Yves Sain Laurent, ha annunciato di cambiare il nome alla linea dedicata al prêt-à-porter da Yves Saint Laurent a Saint Laurent Paris: l’azienda continuerà a chiamarsi Yves Sain Laurent e l’iconico logo YSL continuerà a vivere su borse, scarpe e cosmetici. E’ chiaro che tutto questo generi un po’ di confusione. Slimane non è nuovo a queste audaci decisioni; quando era direttore creativo di Christan Dior, nel 2001, cambiò il nome della collezione Christian Dior Monsieur in Dior Homme, rivitalizzando le vendite.

L’azienda Yves Saint Laurent sostiene che questa operazione sia un ritorno al modo in cui il marchio ha cominciato nel 1960, quando il prêt-à-porter , per distinguerla dalla moda, si chiamava “Yves Saint Laurent Rive Gauche”. Mi chiedo quanti clienti contemporanei conoscano tutto questo; la mia ipotesi è che nelle loro menti tutto è YSL, e questo potrebbe rendere questa mossa un rischio, considerando inoltre che il fondatore Yves Saint Laurent, scomparso nel 2008, è ancora un solido punto di riferimento dello stile in Francia e in tutto il mondo. I vari fashion blogger, influenzatori nei gusti e nei successi dei brand di moda, non hanno preso bene questa notizia («Saint Laurent Paris suona come una catena di alberghi di scarsa qualità» o «Io voto di cambiare Hedi in Heidi»);

Alcuni esempi di cambio nome del passato nel settore del largo consumo non sono proprio positivi: negli anni ’80 il CEO Roberto Goizueta decise che la Coca Cola avrebbe dovuto essere rinnovata negli Stati Uniti perché la Pepsi stava prendendo troppo mercato; decise quindi di creare una nuova formula, più dolce e meno frizzante, chiamandola “New Coke”, senza ascoltare il parere dei clienti o dei dipendenti stessi. Fin dai primi giorni dall’uscita in migliaia cominciarono a chiamare il centralino al numero 800-GET-COKE per esprimere la propria rabbia sul cambiamento e qualcuno cominciò a prendersela anche con gli stessi dipendenti. La gente cominciò a fare rifornimento delle rimanenze della vecchia Coke, nacquero gruppi di protesta e alcuni addirittura caddero in depressione per la perdita di una bevanda così importante nella loro vita. Risultato: la multinazionale di Atlanta tornò sui suoi passi e il marketing trovò altre strategie per limitare la concorrenza.

Quindi, concludendo? Il re-branding è un’operazione molto delicata, anche se a volte è necessaria; in ogni caso – anche se si tratta di brand del lusso o premium price – vale la pena utilizzare in modo intelligente i social media come piattaforma per spiegare apertamente ai propri fan e influencers vari le ragioni del cambiamento e ascoltare le loro domande.