Attualità

Camerette — Francesca Iovene

La quarta puntata di una rubrica su Instagram: architettura, piazze vuote d'estate, soffitti e terrazze.

di Davide Coppo

Camerette è una rubrica di brevi interviste a profili Instagram. È caratterizzata da alcune domande standard, come un questionario, e da altre (evidenziate in blu) che variano da puntata a puntata. Qui la prima, Iris Humm, qui la seconda, Casa Futura, e qui la terza, Case della Vetra.

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Non ricordo con esattezza quando mi sono imbattuto, per la prima, volta, nell’Instagram di Francesca Iovene. Credo fosse estate. Scrollando la sua timeline oggi, un giorno di dicembre in cui la cappa lattea di Milano concede soltanto per pochi minuti un po’ di luce gialla, e tuttavia fredda, mi sembra di aver riconosciuto la fotografia-esca. Quella che mi ha fatto cliccare (ma si clicca anche con un pollice? Si tappa?) sul suo nome, e successivamente sul pulsante segui. Nella foto una pista per bocce verde, all’aperto, in via Morgagni. Un uomo anziano osserva le bocce ferme per calcolare quale sia la più vicina al boccino. Ha una polo color mattone dentro i pantaloni, è in mezze maniche, è estate. I lanciatori sono in fondo alla pista, c’è anche una donna. Con i gomiti appoggiati alla rete protettiva ci sono altri anziani. Via Morgagni, d’estate, è una delle mie vie preferite a Milano. Le bocciofile pubbliche en plein air, i gagliardetti colorati appesi tra i pali, gli anziani felici. Gli anziani in gruppo. Gli anziani che giocano. O, forse, era un’altra foto: una scogliera a picco sul mare, la luce di un pomeriggio sul finire, i colori contrastati, la superficie contrastata del blu, un ultimo bagno prima di andare a casa. In realtà le fotografie di Francesca, fuori da queste due, sono piene di linee e di palazzi, di architetture, di piazze, punti di fuga, prospettive. Soprattutto prospettive.

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Che rapporto fotografico hai con la città in cui vivi? 

Parlando di Milano, visto che ora ci vivo in modo piuttosto stabile, devo dire che mi diverte molto. Mi diverte nel senso che fotografare con il telefono è un allenamento costante e questa città mi ha insegnato tantissimo. Ho sempre preferito fotografare spazi completamente privi di persone, forse per una questione di formazione, ma se ripenso alla componente umana che nel corso dei mesi è a poco a poco aumentata nelle mie fotografie, posso dire che sia stata lei, Milano – ne parlo come se fosse una persona ed è voluto, in un certo senso – a educarmi allo stupore che nasce osservando la gente che si muove in uno spazio urbano così ampio. Mi sono accorta che se una volta era difficile fare caso all’elemento umano, adesso che uso il telefono dappertutto ho avuto modo di notare che è proprio bello fissare degli attimi in cui delle personcine arredano lo spazio, dando all’architettura e al paesaggio un valore aggiunto.

È vero, questa cosa delle persone l’ho notata. È più difficile fotografare con le persone?

Adesso mi sto abituando a farlo con più disinvoltura e mi faccio meno problemi, all’inizio era un disastro perché mi vergognavo. Tutt’ora ogni tanto perdo qualche foto perché ho un po’ paura di disturbare o far arrabbiare qualcuno, ma tanto la maggior parte delle volte le prendo da così lontano che non possono accorgersene, oppure mentre fanno altro e non mi guardano. Non entro quasi mai nei dettagli. Magari con il tempo ci prenderò ancora di più la mano e la smetterò di preoccuparmi, anche perché in futuro vorrei anche approfondire un discorso legato al ritratto in un contesto specifico, quindi dovrò iniziare a rapportarmi con le persone per forza.

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Se guardi le tue foto dall’alto, cosa vedi? Hai una visione d’insieme che ha qualche significato?

Mi sembra di trovarci un po’ di respiro. Mi rendo conto di rimanere sempre abbastanza distante da quel che fotografo, mi soffermo spesso su una inquadratura abbastanza ampia, penso sia per dare una visione generale alle cose e riprenderle dallo stesso punto di vista di quando mi accorgo di esse. Non ho l’esigenza di spostarmi troppo dal luogo esatto in cui noto quello che voglio fotografare, tranne alcune situazioni in cui magari ci sono ostacoli visivi che mi disturbano. Mi piace riportare le atmosfere reali delle cose, anche perché in questo modo ricordo più precisamente la situazione che ho vissuto e come l’ho vissuta. Oltretutto raccolgo i miei spostamenti, quindi si può dire sia un diario di viaggio, indipendentemente dalla distanza di cui parliamo.

Quando hai iniziato a fotografare, o a pensare che avresti potuto farne un lavoro?

Anni fa fotografavo senza pensarci troppo, mi piaceva farlo e mi faceva stare bene, ci perdevo molto tempo, soprattutto per via degli studi universitari. Studiare architettura mi ha portato a fotografare per avere un metodo di analisi. Successivamente ho cominciato a raccogliere ciò che facevo e a strutturarlo meglio, a interessarmi all’architettura e al paesaggio naturale o urbano – sempre in chiave piuttosto trasversale – come soggetti legati alla fotografia. Da lì ho capito che volevo fare quello per vivere, cioè andare avanti unendo discipline diverse che mi permettessero sempre di conoscere cose nuove e poterle fotografare per lavoro, imparando come farlo nel modo corretto e lasciandoci sempre del mio. Spero di riuscirci sempre meglio.

C’è “il senso” di tanta architettura, effettivamente, nelle tue foto: palazzi, ma anche linee di fuga in una semplice cucina. È una cosa che cerchi sempre, o viene naturale? Cioè, ti metti in una stanza a cercare di essere “in bolla” per cinque minuti prima di cliccare il tastino scatta?

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Mi viene piuttosto naturale devo dire, perché è così che alla fine vediamo le cose nella maggior parte dei casi: dritte. E a me piace che le cose siano precise, e spesso centrali, questa è una cosa mia che tendo a fare ormai automaticamente. Mi piace la geometria come disciplina, sarà derivato anche dalla mia formazione universitaria suppongo. All’inizio pensavo di poter essere definibile come fotografa d’architettura, di prendere quella direzione, ma in realtà poi è stato evidente che non è proprio così. Tendo a non astrarre mai piccole parti di una architettura e non decontestualizzo un solo edificio per esempio, perché mi piace che rimanga tutto unito al resto del mondo e che l’architettura possa essere intesa anche in maniera molto trasversale. Mi interesso poco ad una singola opera, mi incuriosiscono molto di più le composizioni urbane, le stratificazioni, le storie e i contrasti.

C’è qualche modello a cui ti ispiri?

Penso che tutto quello che osserviamo, dalla realtà ai lavori altrui, diventi un modello che si può assorbire in miliardi di modi differenti. Mi ricordo che i primi che avevo conosciuto in università erano stati Gabriele Basilico e Luigi Ghirri. Da lì ho iniziato a stupirmi di tutto, di come si potessero costruire dei progetti così belli e pensati e non solo singole fotografie più o meno piacevoli. Adesso se devo citare altri nomi, magari stranieri, mi vengono in mente subito Thomas Struth, Nadav Kander e Cedric Delsaux, di cui ho appena comprato un libro grazie ad un amico e me ne sono innamorata.

C’è una cosa, secondo me, con i soffitti. Ci sono spesso i soffitti, e sicuramente c’entra con la cosa dell’architettura. Vogliamo fare una riflessione sui soffitti?

I soffitti, dici. I soffitti si devono guardare di più, così come l’estremità dei palazzi. Capisco che una persona che cammina sempre guardando per aria, dopo un po’ va a finire che cade. Ma per esempio, prendiamo Milano: come fai a non guardare le terrazze e i giardini in cima agli edifici che la compongono? Sono delle caratteristiche molto importanti della città. Allo stesso modo, la chiusura del contenitore “casa” o qualsiasi altro luogo, penso sia importante considerarla nel pacchetto completo. Accentua la prospettiva e mostra le dimensioni di un luogo che deve venire descritto attraverso l’immagine, quindi trovo il soffitto imprescindibile, come il resto degli elementi, e mi dà sicurezza.

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Uno dei tuoi profili preferiti? 

yleniarca, alle_cram, benerotto, raybanhoff, chiara_arturo, mattiabalsamini
(avevi scritto uno?)

Qual è la percentuale tra quello che fotografi e quello che posti?

Visto che Instagram lo vedo come un diario più o meno giornaliero, posto meno foto di quelle che faccio, per dare un po’ di rigore e ordine e anche selezionare meglio le mie piccole visioni. Tutte sono fatte col telefono, in giro per le città, a meno che non abbia voglia di condividere qualche foto di backstage del lavoro o pubblicazioni che mi rendono felice.

Ci sono poche foto di te, o selfie, o foto nello specchio. È molto silenzioso, diciamo, il feed Instagram, ma non silenzioso nel senso di intimo. Diciamo silenzioso nel senso di “piazza vuota ad agosto”. Pensi che ci sia un eccesso di quella fotografia intimista e un po’ facile fatta di coperte e tazze di caffè americano?

Ammetto che qualche tazza di caffè e coperte le ho fotografate pure io! Raramente, o comunque perché solitamente c’entra qualcun altro, quindi l’attenzione è direzionata verso un elemento da raccontare e non su di me in prima persona. In effetti dipende un po’ da cosa si vuole dire, perché vedo che Instagram racconta molto il quotidiano delle persone, e spesso quindi vengono pubblicate immagini su quell’intimità da risveglio / colazione / piccola abitudine che prima si teneva solo per sé. Sinceramente preferisco l’intimità, come dici tu, della “piazza vuota ad agosto” e lasciare poco spazio a delle cose totalmente mie, anche perché ritengo che dopo un po’ siano monotone e poco interessanti, a meno che non voglia proprio condividere una piccola felicità specifica.

Però ogni tanto spuntano un avocado e due arepas. 

Ah, quella foto! Era stata una giornata molto divertente, l’ho scattata durante un lavoro fotografico da StudioC per il foodtruck di El Caminante, quindi è una foto di backstage. Ogni tanto mi piace registrare anche col telefono alcune azioni o luoghi che scatto con la reflex per lavoro, per lasciare sempre quel senso di immediatezza e non caricare foto non fatte con lo smartphone che uso di solito.

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Cosa vuoi fare da grande?

Mia madre direbbe che ormai sono grande. E ha ragione. Comunque voglio continuare a fare quello che faccio già. Mi fa strano a scriverlo, visto che non sono mai sicura di niente, ma è proprio così. Sempre meglio, sempre di più, con più serenità e magari viaggiando molto.

Piatto preferito 

Pizza. Con la mozzarella di bufala e tanto pomodoro.

Libro preferito 

Se parliamo di visioni ti nomino Calvino con Le città invisibili, se ti parlo d’amore ti nomino Rayuela di Cortazár.

Città preferita

Ho ricordi preziosi in varie città, e non so dire quale mi piace di più in base ad una sola cosa. Amo Milano da morire, sono affezionatissima alla mia città d’origine, Brescia, ma quando ripenso a Valparaíso (Cile) in cui ho vissuto per un anno mi sale una nostalgia tremenda.

Valparaíso, che meraviglia. Com’è fotografare in una città sull’Oceano? Io finirei per fotografare sempre il mare. 

Sì, è una meraviglia. Il mare, infatti, l’ho fotografato davvero spesso. Sono una cittadina a tutti gli effetti, il paesaggio l’ho scoperto tardi. Che sia mare o montagna. Vivere sull’Oceano un anno (e viaggiare per il resto del Cile), ha cambiato tantissimo il mio modo di vedere e vivere la natura e il territorio. L’acqua però è sempre stata l’elemento che preferisco al mondo e la cosa bella è che non è mai, mai uguale. Ogni foto sarà diversa, anche se scattata nello stesso punto. Questo è incredibile. Poi Valparaíso è molto particolare, piena di colori, di dislivelli e scalinate, è stata una sfida continua cercare ogni giorno di rappresentarla in qualche modo. Una palestra per lo sguardo.

 

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