Attualità

Work of Art

Quando il format di massa incontra l'arte contemporanea

di Nicola Bozzi

Mi ricordo che tanti anni fa sulla RAI c’era un programma in cui dieci concorrenti, tutti della stessa professione, si sfidavano per vedere chi era il migliore a fare quel mestiere lì. Onestamente non mi ricordo il titolo (può essere “I Professionisti”? Google non mi aiuta), ma mi pare conducesse Frizzi. Ad ogni modo c’era pure la puntata sugli artisti, con Arnaldo Pomodoro in mezzo alla giuria – che ai tempi non conoscevo di fama, ma uno che si chiama “pomodoro” se lo senti nominare a dieci anni non te lo scordi più. Allora mi aveva affascinato osservare gente che si affannava a fare sculture astratte in due minuti, che il suddetto Pomodoro e gli altri anonimi giurati valutavano in base a criteri a me oscuri. Negli anni successivi non mi è mai più capitato di vedere l’arte contemporanea in televisione, e mentre io iniziavo ad andare alle mostre e ad assorbire un certo tipo di estetica dei giorni nostri, mamma RAI e papà Mediaset al massimo mi concedevano uno Sgarbi o un Daverio, prova della credenza popolare che se ti piace l’arte o sei schizofrenico oppure porti il cravattino.

L’anno scorso, tramite conoscenze slegate dalle mie frequentazioni para-artistiche (la mia ragazza), mi sono imbattuto in Work of Art. Il programma è trasmesso su Bravo, un canale via cavo inizialmente dedito al cinema indipendente, ma esploso poi con reality estremamente gay-friendly come Queer Eye for the Straight Guy (che da noi è diventato I Fantastici Cinque, su La7) e Project Runway, popolare talent show a tema fashion condotto da Heidi Klum e adesso in onda su Lifetime. Secondo Entertainment Weekly, gli show di Bravo mischiano “cultura alta e scrupoli bassi”, e Work of Art è forse l’esempio più calzante tra quelli sopracitati. Modellato sul modello di Project Runway, lo show vede un numero via via decrescente di artisti di varia estrazione (da quelli avviati a quelli più amatoriali) contendersi una personale al Brooklyn Museum e un sacco di premi messi lì dai vari sponsor.

La prima stagione l’avevo trovata emozionante per due ragioni. Uno, l’estetica delle opere che i concorrenti devono realizzare a tempo record è quella contemporanea, con riferimenti più o meno impliciti ad artisti famosi (tipo Andres Serrano e David LaChapelle) che, ogni tanto, vengono anche a fare da giudici extra al programma. Due, quelli che fin dall’inizio potevano sembrare artisti più maturi e sicuri della propria poetica hanno spesso ceduto all’incapacità di declinare il proprio talento in contesti fuori dalla propria comfort zone (sfide di gruppo, materiali diversi, etc). Gente come l’irritante Miles, lodato dai giudici durante tutto il corso del programma, si è poi trovata in finale senza niente da dire (ad eccezione delle proprie cerebrali cripticità concettuali), svergognato da personalità più semplici come Abdi (parecchio ingenuotto all’inizio ma decisamente maturato). Per non parlare della procace ma furbetta Jaclyn, ex assistente di Jeff Koons che le ha provate un po’ tutte per sfangarla, fallendo però miseramente.

In sostanza, in Work of Art l’arte contemporanea, normalmente legittimata dalle proprie nicchie di autosufficienza, viene sradicata dal white cube e messa a processo tutta insieme, con le proprie contraddizioni e le inevitabili frizioni. Circoli altrimenti non comunicanti devono rendere conto allo stesso pubblico, e se l’artista da un lato deve essere se stesso, deve anche adattarsi e pedalare. Arruffianarsi chi guarda non serve, perché la giuria è composta da critici, galleristi e personaggi autorevoli nel campo, e non ci sono contentini populistici tipo il televoto. Ma l’ombra sinistra della narrazione televisiva è comunque sempre presente, a partire dalla drastica frase “Your work of art didn’t work for us”, che congeda gli eliminati. Inoltre, i ritmi e alcune dinamiche dello show non fanno decisamente bene all’arte: di sicuro non giovano i tempi ristretti e le sfide un po’ troppo “compitino”, ma anche la preponderanza di galleristi e critici sui curatori, figure pressoché assenti dal programma, tende ad appiattire il punto di vista generale. Il tutto risulta comunque sorprendentemente costruttivo, se non altro per la siderale distanza dai drammi artificiali e dalle beghe di condominio di Amici di Maria De Filippi, ma è chiaro che il discorso artistico ad ampio respiro cede il passo all’impatto immediato e alla logica di mercato (il mentore dei partecipanti è Simon de Pury, presidente della famosa casa d’aste.

Ad ogni modo, all’inizio della seconda stagione, Work of Art continua a essere interessante. Già dalla scelta dei concorrenti si capisce quali narrative di andranno a sviluppare: c’è l’artista pop-nerd che sa parlare bene del proprio lavoro (ma solo per dire “abbasso l’arte alta”); c’è l’artista afroamericano che si occupa di questioni razziali; c’è l’hipster Lola, tette fuori già dall’episodio due; e c’e(ra) Ugo il belloccio designer francese, defenestrato al primo impatto per la propria incapacità di andare oltre a degli scarabocchi vergognosamente alla Keith Haring. Si preannuncia della gustosa televisione, se non della grande arte.