Attualità

Il matrimonio di Whitney

Analisi e fenomenologia del rapporto fra l'"angelo" Houston e il "diavolo" Brown

di Violetta Bellocchio

La prima è stata Ronnie Spector. Nel 1968 sposò il suo produttore, Phil Spector, restò con lui per quattro anni, e dopo la separazione raccontò di aver vissuto prigioniera in casa propria, sotto il controllo di un marito via via più geloso, ossessivo, matto; raccontò di essere scappata sfondando una porta a vetri a piedi nudi. Non cambiò mai versione.

Negli anni Novanta, è toccato a Whitney Houston. E Bobby Brown.

Brown era stato un bambino prodigio , era diventato un cantante solista di successo. Un anno prima di conoscere Houston incise il suo pezzo più famoso, My Prerogative, un inno del genere «tutti mi criticano, io me ne frego», fiamma eterna di qualsiasi donna voglia cantare ubriaca a una festa: they say I’m crazy, I really don’t ca-a-are. Forse lo conoscete per la versione di Britney Spears.

Oggi Bobby Brown è più noto come quello che ha distrutto Whitney Houston.

Si sposarono nel 1992, dopo tre anni che stavano insieme. Per chi la valutava da fuori, una coppia terribile fin dal primo giorno. Lui diceva che il matrimonio gli aveva dato stabilità, lei difendeva la sua scelta. Eccola nel ’93, in un’intervista a Rolling Stone: «non passo la vita in abito da sera, e non sono un angelo per nessuno». Chi voleva spiegare il loro amore doveva ripiegare su due formule: la prima, la principessa ha sposato il bad boy; la seconda, e ultima, qui c’è sotto qualcosa di strano.

Per alcuni era un rapporto di lavoro, dove Brown ci guadagnava una moglie bella e popolare, e Houston smentiva le voci per cui era lesbica. Un’altra ipotesi, non provata dai fatti ma più agganciata al mondo reale sì: che Houston a fine anni Ottanta fosse considerata «troppo bianca», troppo pop, e che mettersi con una giovane stella dell’ R’n’B l’avrebbe riportata nelle grazie del pubblico nero. (Nessuna prova, a parte i «buuuu» quando venne annunciato il suo nome ai Soul Train Awards del 1989: la stessa sera in cui, stando alla versione da lei raccontata, Houston conobbe Brown; anni dopo, però, lui ha semi-ammesso qualche cosa a riguardo.) Man mano, il relativo declino della carriera di lei fu attribuito ai problemi legali di lui, alla sua influenza maligna. Bobby la picchia, l’ha plagiata, la costringe a farsi di crack. Bobby la tiene in pugno. Comunque sia andata, spostando su di lui la colpa si preservava la pulizia di lei. Si poteva credere a una scena domestica dove tutto era andato orribilmente storto, e a un’eroina innocente che doveva fare buon viso a cattivo gioco, per forza. Lei non era responsabile della sua distruzione.

Questa è la narrativa della prigionia.

Nella famigerata intervista del 2002, che la rete televisiva responsabile adesso sta facendo sparire da YouTube, Houston è stravolta, senza voce, ma spara tormentoni a getto continuo. «Sono troppo ricca per farmi di crack», «non sono tossicodipendente, ho delle brutte abitudini», «se ho speso in droga tutti i soldi che dite voi, voglio vedere le ricevute», «io sono la mia peggior nemica». Brown sta poco lontano – fuori campo – e commenta spesso le risposte della moglie, a un certo punto viene fatto sedere accanto a lei. L’intervistatrice Diane Sawyer si comporta come una interventionist senza licenza e bastona Houston per un’ora, cercando di farle ammettere qualunque cosa, dall’anoressia alla depressione. Lei non cede. Crack is wack.

L’intervista del grande ritorno, quella con Oprah Winfrey del 2009, è molto più inquietante. Prima di finire a parlare del contatto diretto tra lei e Dio con Oprah che le dice sì sì sì, succede di tutto. Houston nega che Brown, da cui ormai era separata, l’abbia mai picchiata o plagiata; dice che l’uso di cocaina aveva fatto parte della loro storia dal giorno uno; parla di un matrimonio d’amore, guastato da una serie di «abusi emotivi e verbali» e dalle crescenti bizzarrie di lui (a un certo punto le avrebbe dipinto occhiacci cattivi su tutte le superfici della stanza da letto); se gli rimase accanto, dice, era perché voleva essere «una buona moglie». Impossibile capire se stesse recitando a soggetto o se ci credesse davvero. La vittima sacrificale è una grande tentazione. La parte migliore, per una donna liberata da un presunto demonio.

 

(Photo by George Rose/Getty Images)