Attualità

Scalare il cielo

La storia dell'alpinismo polacco dal dopoguerra agli anni Novanta nel libro di Bernadette McDonald. La conquista dell'Everest di Wanda Rutkiwicz.

di Manuela Ravasio

Un incontro di carbonari, solo che al posto di giacche logore del risorgimento ci sono vecchi pullover a contenere ventri gonfi, visi bruciati dal sole e mani che giunte in segno di preghiera rimangono arcuate come parentesi. Siamo in una stanza, a metà tra circolo politico e retro di una taverna, a Katowice nel 1994: i personaggi che siedono stanchi, parlano con voce bassa e hanno la barba di qualche giorno che corre lungo il collo. Sono gli stessi uomini che in una manciata di anni hanno conquistato le cime più alte del mondo. A raccogliere questa testimonianza è Bernadette McDonald, canadese, biografa di grandi alpinisti, che con il libro Volevamo solo scalare il cielo edito in Italia da Versante Sud edizioni (titolo originale Freedom Climbers ed. Rocky Mountains Books) consegna definitivamente le montagne alla Polonia.

In quella stanza, alla fine di un festival di montagna fortemente voluto dalla McDonald, lo spettro del Secolo Breve aleggia ancora e la biografa canadese non manca di raccontarlo nei minimi particolari. Alpinisti, arrampicatori e montanari: non c’è differenza di disciplina e attrezzature necessarie per vivere la montagna perché la Polonia che dopo la Seconda Guerra mondiale scappa, sui monti Tatra prima e sull’Himalaya dopo, è sempre uguale a se stessa. In fuga dalla definizione crudele di stato cuscinetto la Polonia nutre a pane e macerie una donna simbolo del Novecento alpino, Wanda Rutkiewicz. Un personaggio che in pochi decenni scala un Ottomila dopo l’altro e allo stesso tempo, bellissima e rabbiosa, diventa una star mediatica allo stesso livello di Reinhold Messner. Ma prima di tutto questo, prima del suo scalare il K2 con le stampelle che le aprono carne viva sotto le ascelle, la cartolina dalla Polonia che Wanda consegna a chi guarda alle sue imprese come frutto di un miracolo è ricordata in una frase «Non sarei qui, oggi, se i bambini di sette anni andassero d’accordo con le bambine di cinque» riassunto di quando il fratellino con gli amici la espellono dai giochi e mentre questi si dilettano con ordigni inesplosi perdendo la vita.

Questa frase spiegherà l’atteggiamento di Wanda in mezzo alle spedizioni quasi sempre maschili, e risuonerà come monito a chiunque la criticherà per la sua leadership incontrastata al campo base. Ma se la Rutkiewicz è il personaggio più cinematografico e simbolico della storia montana polacca, il sentore di rivalsa è molto più intenso quando Bernadette McDonald non può scansare la Storia dall’Alpinismo. La conquista dei permessi per valicare il confine è più ardua di qualunque Nanga Parbat; quando le spedizioni austriache e tedesche investono su ex militari che dominano le Alpi, i soviet arruolavano para-volontari come gli scalatori che, pur di oltrepassare il confine per raggiungere le vette, erano disposti a diventare delle spie con l’alibi di essere all’estero per ragioni sportive. Inoltre nel caso in cui l’impresa sportiva riuscisse davvero bene – e i polacchi avevano il vizio di eccellere – il governo intascava anche fama e rispetto dal mondo per le conquiste dei suoi atleti.

Per un Alek Lwow dichiaratosi collaborazionista c’era un Andrzej Zawada (leader del rigorosissimo Club Alpino Polacco) che pur contrario difendeva il compagno di cordate affermando «è una strategia che non può essere peggiore della propensione occidentale a coprire le proprie giacche con orribili adesivi di loghi di sponsor». L’isola felice di questa generazione era stata per anni il piccolo rifugio Mrskie Oko sperduto tra i monti Tatra, ma personaggi anti-club e poco socialisti come Voytek Kurtyka, rocciatore dei record, erano comunque legati al cassetto economico che il Club poteva assicurare. Per quanto nonostante i continui successi in vetta, lo Stato non riconosceva agli scalatori lo stato di sportivi come pallavolisti e atleti a cui veniva pagato tutto. Gli alpinisti invece di allenarsi lavoravano, relegando al weekend le arrampicate dove si saliva più in alto anche solo per scacciare l’aria tossica respirata nelle fabbriche.

Negli anni Settanta la Polonia deve arrendersi al fatto di aver nutrito (di stenti) tra i più forti arrampicatori del mondo: le spedizioni non possono più essere contrastate. Anche se alle notizie di prossime vette da conquistare si uniscono escamotage per contrabbando (di whisky come di scatolette di carne) squadre femminili dai caratteri decisi fotografate come nuove icone di femminilità,  orsi dal corpo infaticabile che risalgono silenziosamente il Kangchenjunga. La critica mondiale segue le vicende di questi squattrinati che recuperano quarant’anni passati senza scalare mentre i vicini di casa sfidavano la parete Nord dell’Eiger. Anni in cui  gli scalatori polacchi hanno imparato a viaggiare leggeri, per ristrettezze economiche, anche quando  si presentano in Nepal, d’inverno.

Ancora una volta la Storia si infiltra profondamente nelle vicende di corda e ramponi: il 16 ottobre 1978 la cattolicissima Polonia viene premiata due volte, con l’elezione di Karol Wojtyla a Papa e con la conquista dell’Everest di Wanda Rutkiwicz. Insieme a lei gli scalatori suoi connazionali hanno toccato altri ottomila, a questo punto con la spilletta di  Solidarność appuntata al bavero delle giacche a vento. Otto anni dopo a pasteggiare sul Tetto del Mondo sono in molti di più: il Pakistan fa del K2 il suo business migliore rendendolo un far west a 8611 metri, dove cordate sud-coreane si muovono con un’ingorda processione di sherpa mentre la loro tenda è il ritrovo di tutti, polacchi, inglesi e francesi, che lì stazionano per usufruire di “sedici tipi di té e ampia selezione di film da proiettare”.