Attualità

Volete stare zitti, per favore?

C'è chi propone cinema più illuminati e rumorosi, nei quali collegarsi al internet e parlare in serenità: prepariamoci allo scontro di civiltà (che è già cominciato).

di Pietro Minto

Essere distratti is the new essere concentrati. In un mondo popolato da persone armate di smartphone l’approccio umano alla cultura e intrattenimento sta cambiando: Twitter, per esempio, si sta legando a doppio filo con il consumo televisivo, imponendo agli spettatori di seguire in tempo reale l’andamento di film-programmi-serie a colpi di tweet e retweet. Hai visto Breaking Bad? Sì? E dove sono le prove? Perché non l’hai commentato sui social network? Voglio dire, nemmeno una GIF?

Quello che si fa sul divano di casa è però questione personale, rumore di fondo che gli altri spettatori possono facilmente evitare rimanendo offline: le cose però cambiano se il doppio schermo (quello televisivo e quello degli smartphone) invade i luoghi dell’intrattenimento collettivo. Il cinema, per esempio, è un luogo buio e silenzioso, esige un comportamento maturo e concentrato ma allo stesso tempo permette atti di ribellione, purché siano silenziosi: al cinema come al teatro è lecito prendere il sonno – la ronfata come quieta stroncatura, rivolta pacifica – a patto non si russi. Ma dormire si può, eccome; anzi: il sonno è alla base del mezzo. C’è un’ampia letteratura che unisce la magia del cinema all’onirico: il fondatore del surrealismo André Breton paragonava il rito cinematografico a un un sogno ad occhi aperti (pdf) in cui lo spettatore, consciamente sonnambulo, prende posto, si accomoda su una poltrona, si fa spegnere le luci per inoltrarsi in una storia, una bugia, una fuga dalla realtà. Un sogno.

Le barriere si stanno però sbriciolando. Ormai abituati a vomitare opinioni, scatti e Vine dalle nostra mura di casa a uso e consumo di estranei nella rete, in molti stanno portando il vizio domestico in pubblico, alla faccia della sacralità del silenzio e del buio. Un apocalittico piangerebbe per il tramonto della concentrazione, del piacere dello spettacolo; a degli occhi più tolleranti, il fenomeno sembra invece l’ultima mutazione del concetto d’intrattenimento, che da passivo è diventato attivo, rumoroso e ruminante d’opinioni non richieste. Lo scorso mese Brent Cox su The Awl ha parlato della «fine del piacere silenzioso» e, per quanto la trasformazione sia in corso, potremmo già definire il momento in cui tutto è cominciato e si è avviato quel meccanismo che potrebbe ridefinire l’intrattenimento del futuro.

Il 3 agosto scorso il venture capitalist Hunter Walk  ha pubblicato sul suo blog un post innocuo diventato in poche ore di dibattito in rete manifesto e anti-manifesto della civilità dello spettacolo odierna. Sono poche righe scritte nella Silicon Valley da una persona facoltosa e abituata a sale probabilmente migliori di quelle italiane; provengono da quella Valle separata dal mondo da una bolla di sogni e ingenuità. Sono però importanti:

A molti non piace andare al cinema per il prezzo o la folla ma per quanto mi riguarda si tratta di una decisione di vita. Voglio fare sempre più esperienza mediali “connesse” e con la possibilità del multitasking. Leggere il cast, twittare un commento […] o fare semplicemente altro mentre Superman recita nello sfondo. Ovviamente sono tutte attività scoraggiate o impossibili da fare al cinema. Ma perché? Invece di allontanare le persone, perché non segregarle in ambienti in cui possano fare quello che si sentono? Mi piacerebbe guardare Pacific Rim in un cinema più illuminato, con wifi […]. Non ditemi che leggendo il mio iPad mi perderei qualche momento fondamentale della storia – è un film sui robot che lottano contro mostri, posso seguirlo lo stesso.

Hunter Walk – si potrebbe evincere dalle sue parol – è maleducato ed egoista, non sa comportarsi in pubblico e pretende che i suoi pruriti sociali siano risolti cambiando la realtà dei fatti per tutti, per sempre. È quindi il ritratto del perfetto venture capitalist della Valley, genuflesso al dio della disruption, devoto alla rottura di righe e schemi, ligio al fare a botte con “le regole” nel nome di un’idea di futuro o, come in questo caso, di un consumo culturale meno liturgico. In molti hanno risposto alla sua confessione e non sono mancati voci vicine alle sue posizioni. È seguito un dibattito che pareva l’anticamera di una scissione culturale. E in questi casi c’è solo una cosa da fare: sedersi comodi e aspettare lo scontro di civiltà.

Che è arrivato circa un mese dopo la pubblicazione del post di Walk, quando Alex Billington, tenutario di un blog americano dedicato al mondo del cinema, First Showing, si trovava al Toronto Film Festival, e durante la  proiezione di The Sacrament del regista Ti West, si è scontrato con la Nuova Realtà. Uno spettatore armato di smartphone che illuminava la sala oscura con il suo faretto colorato e – sostiene Billington – piratava il film. Eccolo qui lo scontro di civiltà, tra gli spettatori “addormentati”, cultori dei riti classici cinematografici, e quelli “in dormiveglia”, pronti a spezzare la magia del medium per fare altro o commentare il superfluo.

Nella nostra storia il blogger è l’eroe della Vecchia Scuola e subito capisce che la sua passione è in pericolo. Ed è passato subito all’azione denunciando lo spettatore al 911 e – ironia – raccontando poi la vicenda su Twitter (vedi di seguito): secondo la sua ricostruzione  il “pirata” non era l’unico a usare il suo cellulare con disinvoltura e gli organizzatori del Tiff sembravano sorpresi dalla sua reazione tanto che Billington era stato il primo a lamentarsi dell’andazzo nelle sale.

Che la nuova condotta si sia già diffusa in un ambiente così di nicchia e appassionato come quello di un festival del cinema?

Né Walk né l’anonima nemesi di Billington possono però essere bollati come superficiali o distratti: sono probabilmente fruitori responsabili e attenti, abituati al multitasking sfrenato per cui, mentre si guarda un film su un computer, si mette in pausa per controllare la mail, Facebook, Twitter, cercare quell’ospitata da Letterman della protagonista del film; o guardano altro, compulsano Repubblica.it per poi tornare alla finzione senza esigere le luci spente come un surrealista. E rimangono concentrati, focalizzati sull’argomento grazie un cervello elastico e olistico che tutto sembra tenere assieme senza rovinare il prodotto finale. Anche al cinema.

Non è poi un caso che Walk citi Pacific Rim come esempio: il suo riferimento cinematografico è di per sé chiassoso e rumoroso e quindi prevede un consumo distratto, altalenante. Il nostro sembra suggerire che il cinema “social” funzionerebbe appieno in alcuni casi mentre sarebbe fuoriluogo per film come , per esempio. È un’idea di cinema superficiale anche per tempi in cui le poche pellicole a incassare sono quelle a tema robot&supereroi e persino le commedie di qualità soffrono al botteghino. L’unico obiettivo della “nuova leva” sembra il ritagliarsi uno spazio riservato, una ghettizzazione volontaria alimentata dalla megalomania e una spolverata di problemi sociali.

Per fortuna poi c’è sempre la perfida realtà quotidiana a rimettere il mondo in riga e rendere evidente che la Vecchia Scuola è dura a morire: lo scorso weekend sono andato al cinema a vedere Gravity, il film con i dialoghi più insulsi e lunghi nella storia dei film che parlano di persone disperse nello spazio; tra il pubblico c’era un tizio che parlava e ridacchiava con dei suoi amici. Vicino a lui c’era una piccola luce. Teneva il telefono in mano. Stava usando Whatsapp, chissà, magari era anche urgente. Però avrei tanto voluto fare una scenata alla George Costanza e fargli rispettare gli antichi riti del passato. Sono grave, dottore?

 

Immagine: una persona fastidiosa al cinema (via); per altre immagini sull’argomento, non perdetevi le proposte di Shutterstock