Attualità

Vine vidi vici

Prima Youtube e ora Vine: i video sono sempre più importanti e utilizzati, dalla pubblicità alla moda, passando per il giornalismo.

di Michele Boroni

Se proviamo ad analizzare il web con metriche macroeconomiche classiche, ci accorgiamo che, alla fine, non c’è una grande differenza con gli altri media tradizionali.

In fondo anche il web è composto da grossi editori il cui obiettivo è quello di far stare sui propri siti più utenti per il maggior tempo possibile.

Guardando i dati dell’ultima indagine Audiweb php ci si accorge che anche in Italia (buon ultima) la killer application è il video. I numeri generati dalle pagine web delle principali testate che trasmettono servizi video sono spesso superiori a quelli dell’audience dei nuovi canali tematici del digitale terrestre o satellitare. Repubblica.it a gennaio ha totalizzato 273,6 mila utenti unici nel giorno medio nella visualizzazione dei suoi video (Corriere.it 241,2 mila), mentre Discovery Real Time – cioè il canale tv più in vista nella “nuova tv” – ha contato 173 mila spettatori nel giorno medio dello stesso mese (con punte di 298 mila in seconda serata).

Il confronto tra i due dati – internet e tv – non è correttissimo da un punto di vista statistico, però serve per dare le dimensioni del fenomeno.

Concentriamoci quindi sul web.

I video all’interno dei siti di informazione permettono di attirare molti più utenti e per un periodo più lungo: le cosiddette stream news di Repubblica fanno stare gli utenti sulle pagine in media per tre minuti, questo significa anche tempestarli di bannerini laterali e di spot prima delle suddette news. I minuti di permanenza sono ancora più alti per i siti dei network tv: sempre secondo Audiweb di gennaio sul sito della Rai il tempo medio sulle stream view (ovvero i programmi tv del giorno/settimana prima) è stato di 22 minuti e 50 secondi.

Non stiamo dicendo cose nuove e rivoluzionarie, ma solo prendendo atto di fatti che anche qui da noi iniziano a registrare numeri di rilievo.

La pubblicità, del resto, se ne era accorta da tempo, con ben altri numeri. Globali. Per dirne solo una: lo spot Darth Vader realizzato da Volkswagen America per lanciare la nuova Passat ha avuto su YouTube oltre 50 milioni di visualizzazioni in tre mesi, come un video di Justin Bieber e molto più di un goal di Lionel Messi.

Trattasi di ricerche e visioni spontanee, a differenza delle pubblicità su tutti gli altri media. Modalità che ovviamente stanno cambiando (più o meno) velocemente le regole dell’advertising: nuovi strumenti, nuovi metodo di ingaggio, sempre meno intermediazioni, nuovi modelli di produzioni e nuove estetiche.

Ma andiamo a vedere esempi più recenti e che segnano l’evoluzione del linguaggio pubblicitario, dove lo storytelling si sposa con l’interazione, l’intrattenimento con l’esperienza di acquisto.

C’è ad esempio Asos che nel suo sito Urban Tour presenta la collezione maschile attraverso una serie di video che intercetta le tendenze delle principali capitali e dove è possibile cliccare (e poi acquistare) direttamente su ogni singolo capo indossato dagli artisti durante il video, oppure Geox che per presentare la collezione di calzature impermeabili, ha mandato in un paesino nella zona più piovosa dell’India dei monsoni quattro viaggiatori scovati su internet e ha creato un sito con video interattivo dove l’utente può scegliere con chi compiere il viaggio. Per non parlare dello straordinaria video brand experience creata dal marchio d’abbigliamento danese Only (prendetevi dieci minuti e navigateci).

Roba forte, puro wow effect, che fa lasciare a bocca aperta specialmente se si ha a disposizione un bel iMac widescreen con connessione superveloce, altrimenti è raro che un utente/consumatore ci torni la volta successiva. Queste operazioni mostrano presto i propri limiti di usabilità: troppo ricercate e con molte barriere all’entrata (la perfetta visione si può avere solo da device e browser di ultima generazione). Forse l’eccezione è il puro intrattenimento dato dall’intramontabile mini-sito della colla Tipp-Ex con la possibilità di decidere come andrà a finire la storia.

L’imperativo delle strategie digitali oggi è un altro. I brand devono provare ad essere più familiari e vicini possibili alle persone; non è più il tempo di marchi inarrivabili e irraggiungibili, e i tentativi di comunicazione sono rivolti a umanizzare il marchio, renderlo familiare.

Questo nel mondo digital significa utilizzare strumenti user friendly e possibilmente accessibili attraverso gli smartphone.

Come si è visto, i marchi del fashion system sono i più sensibili alle innovazioni nella comunicazione digitale così, come negli ultimi due anni è cresciuto notevolmente l’utilizzo di Instagram per mostrare le ultime collezioni fuori dai contesti ufficiali delle sfilate, in futuro sarà sempre più massiccio l’utilizzo di Vine.

Vine è la piattaforma mobile di video-sharing che permette attraverso un’applicazione gratuita di registrare mini clip di 6 secondi formati da una o più sequenze, senza alcun tipo di editing o postproduzione. Possiamo definirla come una sorta di versione aggiornata, dilatata e social delle gif animate. Lo scorso autunno i tipi di Twitter ha comprato Vine (così come Facebook aveva comprato Instagram) perché hanno capito che questa fast video communication in salsa social non è solo utile per gli utenti ma anche per le aziende che vogliono comunicare in modo nuovo i propri brand.

Come anticipato su un recente articolo di Les Cahiers del Fashion Marketing, oggi molti marchi della moda hanno iniziato a postare video su Vine per anticipare in modo rough capi delle nuove collezioni (Marc Jacobs), per i retroscena nella creazione di una sfilata o di uno shooting (Oscar De La Renta), o creare piccoli spot (Calvin Klein). (Anche Studio ha utilizzato Vine per presentare in sei secondi il suo ultimo numero, Ndr.)

L’obiettivo di queste comunicazioni, apparentemente cheap, è proprio quello da una parte di rafforzare il legame brand-consumer rendendo più intima l’esperienza con il marchio e, dall’altra, utilizzare in modo intelligente i social media, per creare attività di crowdsourcing (contest, etc..), facendo quindi partecipare attivamente gli utenti nella creazione di una simil campagna pubblicitaria. I primi brand che hanno iniziato ad usare questi strumenti stanno raccogliendo un ottimo successo

Tutto questo, però ha anche degli effetti collaterali: come scriveva alcuni giorni fa Angelo Flaccavento sulle pagine dell’inserto Moda del Sole 24 Ore il rischio è che l’utilizzo massiccio di queste forme di fast-content facciano perdere di magia e autorevolezza i brand e le maison più conclamate. Ma – continua Flaccavento – oggi la moda (e in generale il mondo dei brand) non ispirano più, bensì avvicinano, così il confine tra desiderabilità e sovraesposizione è sempre più labile.

E un video (o un like) di troppo può essere letale. E da killer application può trasformarsi in killer del marchio.

 

Immagine: David McNew/Stringer/Getty Images