Attualità

Guardare la Rai con Vezzoli

Apre in Fondazione Prada la nuova mostra dell'artista italiano: lo abbiamo incontrato per parlare di com'eravamo noi e i nostri televisori negli anni Settanta.

di Barbara Meneghel

Francesco Vezzoli è senza dubbio uno degli artisti contemporanei più versatili e completi. La sua nuova mostra, che apre ufficialmente martedì 9 maggio in Fondazione Prada (ma si potrà vedere già da stasera con una speciale apertura serale al pubblico), lo vede nel ruolo alternativo di curatore di un ampio percorso di ricerca dedicato alla televisione italiana degli anni Settanta: quella che lui vedeva da bambino, e che è sopravvissuta nel suo immaginario di adulto mescolandosi a tanto altro.

Un progetto ambizioso co-prodotto dalla Rai e da Fondazione Prada, i cui spazi milanesi diventano un grande archivio frutto di un lavoro al tempo stesso collettivo e individuale, scientifico e personalissimo. L’obiettivo è quello di offrire uno spaccato di quel decennio irripetibile per il nostro Paese, attraverso l’arte, la politica ma soprattutto le immagini del piccolo schermo di allora: secondo Vezzoli, semplicemente, la migliore televisione al mondo. A pochi giorni dall’apertura della mostra, ci siamo trovati a parlare di tutto – da Raffaella Carrà a Pasolini, da Emma Marrone al Louvre, passando per Netflix, Jay-Z e il teatro classico – il bello, appunto, dell’interdisciplinarità.

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ⓢ Partiamo da quella che sarà l’ultima tappa del percorso espositivo: un montaggio di estratti televisivi dell’epoca proiettato nel Cinema della Fondazione Prada, frutto di una tua selezione personale. Forse la sezione più tua, più intima della mostra.

Certo. Lì si trova la parte più personale del progetto: se vogliamo, è il mio “orgoglio patrio” televisivo. Ho cercato di dimostrare che ci sono molti momenti nella storia della cultura televisiva italiana che hanno avuto un forte impatto su di me: in parte semplicemente perché ero un bambino, ma in altri casi perché li trovavo realmente belli. Si tratta comunque di una soggettiva: che sia quella della rivendicazione di un gusto personale, o quella della nostalgia risvegliata da queste piccole madeleine. Il cinema, insomma, è il luogo in cui Vezzoli vuole raccontarti le sue cose più private.

 

ⓢ Trovo molto affascinante questo accostamento tra un livello di memoria strettamente personale, intimo, e un altro di metodo archivistico tecnico, oggettivo (ossia, il lavoro di ricerca che è stato fatto nelle Teche Rai con il supporto di alcuni esperti).

Esatto, nelle altre sezioni della mostra l’approccio è decisamente più “scientifico”. Nella galleria Sud, ad esempio, si troverà tutto il materiale curato da Massimo Bernardini: ha lavorato per un mese negli archivi Rai, selezionando più di 100 attacchi di telegiornali con i fatti più tragici della strategia della tensione.

 

ⓢ Invece per la tua selezione nel cinema non ti sei appoggiato a nessuno dei consulenti scientifici della mostra, giusto?

Infatti, lì volevo un momento veramente mio, e ho frugato da solo nei miei ricordi. Ieri sera ad esempio ho riguardato le sorelle Goggi che cantavano “Voglia”: altro che i musical di Hollywood, altro che La La Land… Stupende! Gli altri (Cristiana Perrella, Marco Senaldi e, appunto, Massimo Bernardini) hanno investito moltissime ore a cercare negli archivi: ore che io, invece, avevo già trascorso nell’arco della mia vita. Di nuovo: io nel cinema metto il mio archivio emotivo, loro hanno fatto un lavoro di archiviazione scientifica. A questo proposito poi, va sottolineato un aspetto ancora più interessante: quello della storia, che su di me esercita un fascino fortissimo. Per le nostre generazioni, finché non arriveranno altre tipologie di archivi digitali, la Rai è paragonabile alla Bibliothèque Nationale de France, cioè all’archivio di Stato. Con la differenza che in un archivio di Stato nessuno va più a cercare niente: nelle Teche Rai invece, è possibile trovare qualsiasi cosa.

 

ⓢ …e infatti mi sembra di intuire che la vera novità – forse addirittura l’essenza – di questo progetto della Fondazione Prada, sia la sua collaborazione con un archivio statale.

Secondo me, sì. Addirittura, quando mi viene chiesto quale sia la vera opera d’arte nel concept di questa mostra – rispondo che sta proprio nel dialogo tra queste due entità. Non rivendico nulla di questo progetto: ma se un giorno avessi scoperto che la Bbc stava organizzando una mostra in collaborazione con la Tate, sarei corso a vederla. O se il Centre Pompidou l’avesse fatta con France2, per intenderci. O ancora, se il Louvre l’avesse fatto con la Bibliothèque Nationale de France e di fianco a un quadro di Manet ci fosse stata una lettera di Proust che raccontava la storia di quell’opera attraverso i suoi personaggi… Avrei comprato il biglietto immediatamente. In questo momento in cui l’arte non riesce a staccarsi da una forma di continua feticizzazione, io trovo che invece sia fondamentale la dialettica: non ci sono due mondi distinti, la musealità da un lato e le fiere dall’altro. E insisto col dire che, in una nazione piccola come la nostra, il concetto di collegamento è fondamentale. Per fare un esempio, sembra che il soffitto della casa di Gorni Kramer (il maestro di tutti i primi show tv, come il Musichiere), sia stato fatto da Lucio Fontana. Un tempo non c’era questa separazione netta tra ambiti e discipline, la creazione di collegamenti dialettici tra mondi diversi è fondamentale.

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ⓢ Passiamo ai contenuti della mostra: la scelta è quella di concentrarsi su un decennio ben preciso – quello idealmente compreso tra la fine del 1969 (con la strage di Piazza Fontana) e il 1980. Anni in cui la TV Italiana ha dovuto accompagnare una società sferzata da una serie di vicende socio-politiche durissime.

Assolutamente. La tv in quell’occasione è stata costretta a essere Giano bifronte, con un forte contrasto tra la durezza delle notizie di cronaca e la leggerezza dei programmi televisivi. Alle 20 ti raccontava la guerra civile, e alle 21 doveva far vedere l’ombelico della Carrà perché la nazione stesse in piedi: un meccanismo alla Marlene Dietrich che sollevava il morale alle truppe in guerra. E a mio parere riuscivano anche a fare un buon lavoro, nel senso che la qualità del prodotto di intrattenimento era molto alta…

 

ⓢ Infatti la tua lettura della televisione di quegli anni è decisamente positiva, giusto?

Sì. Con questo progetto vorrei rivendicare il fatto che in quei dieci anni noi siamo stati produttori della miglior televisione al mondo. Pensiamo alle alternative: l’Eastern Bloc, con l’emittente russa che era chiaramente una televisione di regime; la tv americana che, pur avendo degli ottimi giornalisti, era interamente commerciale; in Inghilterra, la fase interessante inizia negli anni Ottanta, con ITV o Channel 4… Insomma, nei Settanta quelli che producono la tv più pazza, più surreale, siamo noi.

 

ⓢ Quindi intendi la televisione italiana di quel decennio come un contenitore di sperimentazione creativa, giusto?

Non soltanto: era il contenitore di una tradizione rimescolata, di sperimentazioni, di collaborazioni vere e proprie con nomi di alto calibro. C’erano a contratto Umberto Eco, Giulio Paolini o Pino Pascali per le scenografie… Quando dico che secondo me la Rai dell’epoca è stata il Centre Pompidou che l’Italia non ha mai avuto, intendo esattamente questo.

 

ⓢ Faccio a questo punto l’avvocato del diavolo, dicendo che non tutti la vedrebbero allo stesso modo: e ti cito, inevitabilmente, la posizione di Pasolini su quella stessa televisione, vista come uno strumento di controllo nelle mani della nascente società dei consumi. Autoritaria, alienante  e subdolamente repressiva come mai nessun mezzo di informazione al mondo.

Pasolini era geniale, ma purtroppo – come per altri pensatori di alto livello – molto poco di quello che hanno sperato è risultato realistico. Pensa che ho tenuto un ritaglio in cui Citto Maselli, che conosceva molto bene Pasolini, racconta le loro diversità: «Io e Pier Paolo eravamo molto amici», dice, «però se vedevamo un operaio che con il proprio stipendio riusciva a comprarsi un cappotto, io pensavo: beh, sono contento che abbia il cappotto nuovo e soffra meno il freddo. Pier Paolo invece vi vedeva semplicemente un esempio della società dei consumi che corrompeva la classe operaia».

 

ⓢ Te lo chiedevo però perché ho l’impressione che questa tesi di un alto livello creativo della tv italiana non sia così frequente…

Beh, io la difendo assolutamente, perché ritengo che grazie a questo polimorfismo, la nostra tv fosse ricca di spunti importanti. Dal punto di vista della questione del gender, ad esempio, era già molto libera, e non è una cosa da sottovalutare. Se si guarda Renato Zero che canta “Viva la Rai”, ci si chiede se sia un uomo, una donna, una trans: indossa una specie di drappeggio di maglia di metallo, una cresta di piume di gallo, i ventagli… A livello di prossemica è un linguaggio che trascende qualsiasi forma di mascolinità o femminilità: direi che è arcaico, mi ricorda gli affreschi delle Ville di Pompei, i travestimenti della commedia latina di Plauto. C’era, in sostanza, una libertà di linguaggio che ora paradossalmente non c’è più. I politici non avevano ancora capito appieno il potere dei media, e dunque c’erano delle crepe un cui si erano potuti inserire dei folli come Enzo Trapani, che facevano delle cose oggettivamente molto più coraggiose, più avanti rispetto al resto del mondo.

 

ⓢ Mi ricollego allora a questo aspetto dei diritti civili e del gender, per affrontare un’altra questione centrale nel progetto della mostra, ossia quella del corpo della donna. Troviamo innanzitutto l’ombelico di Raffaella Carrà, inteso qui come una prima forma di emancipazione femminile, anche estetica…

Sì certo, ed esattamente come nel caso della posizione pasoliniana sulla tv, anche su questo tema si può aprire un dibattito. Decine di femministe italiane, anche se non so se si siano mai espresse sull’argomento, senza dubbio ritenevano tutto questo una manipolazione del corpo femminile.

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ⓢ …Ed è come verrebbe letta con gli occhi di oggi, presumo. Circola proprio di questi giorni una petizione contro le molestie sessuali in televisione, a seguito di un recente episodio che ha coinvolto Emma Marrone in una sorta di scherzo durante una puntata di Amici

Lo so, sono già stato criticato su questo aspetto. Io però continuo a sostenere e che se una donna di quell’epoca cantava “Com’è bello far l’amore da Trieste in giù” davanti a 30 milioni di italiani alle otto di sera, avesse comunque una portata estremamente innovativa… Certo, non sarà stato un messaggio rivoluzionario per la donna industriale milanese. Però è innegabile che per una donna del Sud Italia, più legata alle tradizioni e a rapporti patriarcali, il cambiamento potesse essere sconvolgente. E qui mi spingerei oltre: in una recente intervista al Fatto Quotidiano, Antonello Falqui ammette per la prima volta che lui e Mina quei tempi avevano una storia. E ancora, tutti sappiamo che Raffaella Carrà e Gianni Boncompagni avevano una relazione. Mi permetto allora di controbattere a queste osservazioni femministe con una teoria romantica: queste due donne, che in fondo erano le più iconiche per la cultura popolare dell’epoca, erano amate da due uomini, i loro registi, pigmalioni, che però avevano una mascolinità molto pop, molto elegante. Per intenderci, non erano Jay-Z: un rapporto Carrà-Boncompagni o Falqui-Mina, secondo me, era molto più paritario rispetto a quello tra Jay-Z e Beyoncè.

 

ⓢ Mi incuriosisce però il contrasto tra due letture della posizione femminile che coesistono (anche se in due sezioni distinte) nella tua mostra: ossia, Raffaella Carrà come prima forma di trasgressione/emancipazione da un lato, ma dall’altro Carla Accardi. Una figura di artista riconducibile – almeno nella sua fase iniziale –  a un filone di femminismo molto diverso, esplicitamente politicizzato.

…Ma alla fine anche la Carrà, senza dirlo, era parecchio di sinistra! Come accennavo prima comunque, in quel periodo i politici non danno peso all’entertainment (che oggi è un’industria molto potente), e indirettamente lasciano spazio alle donne. Quindi, io le celebro insieme perché sono entrambi esempi di visibilità – di spazi in cui la donna ha avuto la possibilità di inserirsi in mondi prima esclusivamente maschili. Va detto poi che la Accardi si è staccata da un certo tipo di estremismo politico, e ha voluto difendere la propria identità di artista. Allo stesso modo, se alla Carrà fosse stato proposto – benché fosse una donna libera, di sinistra, non sposata, multi-concubina per la moralità dell’epoca – di aderire al 100% ai dettami della sinistra politica si sarebbe probabilmente rifiutata. In sostanza, sto cercando di rivalutare un certo periodo di liquidità, di fluidità… perdonando anche certe piccole sbavature della Carrà e della Accardi.

 

ⓢ Per concludere: un elemento molto importante della televisione di allora è quello della fruizione temporale. Siamo passati da una situazione iniziale in cui, non esistendo neppure il videoregistratore, la fruizione di una trasmissione doveva consumarsi nel “qui e ora”, all’estremo opposto di oggi, in cui con i servizi di streaming guardare una serie televisiva non comporta nemmeno più di aspettare la settimana successiva per la seconda puntata.

Esattamente. Allora la trasmissione televisiva era una messa cantata. E si ragionava solo in termini di spettatori, di indice di gradimento. Adesso siamo arrivati a Netflix, che ad esempio non fornisce i ratings, non dichiara il numero degli spettatori: c’è stato veramente un giro a 360 gradi.

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ⓢ Emerge in qualche modo tutto questo dalla mostra?

Sì, nella modalità in cui M/M (la coppia di designer che ha ideato l’allestimento del percorso espositivo) ha deciso di progettare lo spazio: tutto è disegnato in un’alternanza di luce e buio, per cui ogni 15 minuti calano delle tende e la mostra diventa un’altra cosa. La televisione di quegli anni era un momento del tempo, e non era controllabile, anzi, era lei a controllare noi. La Rai è stata l’orologio delle nostre storie private e pubbliche, ha scandito i secondi dei nostri eventi quotidiani. Effettivamente il registratore non esisteva: la televisione era un rito, che generava un mito. Tant’è vero che i miti creati dalla tv di allora resistono ancora: per i loro meriti, certo, ma anche perché erano i figli di questa costruzione temporale dell’istantaneità. Lo stesso discorso, del resto, vale per il sistema cinematografico: viviamo in una città in cui le sale storiche stanno chiudendo, e quindi  questa ritualità si sta perdendo anche rispetto al cinema. Il momento temporale, il contesto naturale, psicologico, all’interno del quale noi fruiamo una manifestazione creativa la condiziona profondamente (un’idea che viene dalla storia del teatro greco e latino). Ora sta cambiando completamente la politica delle emozioni rispetto a un prodotto visivo: e questa è l’ennesima rivoluzione legata all’era digitale. D’altra parte la ristata è contagiosa; il pianto è contagioso. Ma il contagio dov’è, se si è da soli a casa davanti a Netflix? Gli unici eventi televisivi che ancora riescono a catalizzare le grandi folle sono quelli che implicano una premiazione, una sorpresa alla fine: il Super Bowl, o gli Oscar. Se non li si segue in diretta, subito dopo sui social network compaiono i risultati. Pensa che io ho scritto la mia tesi di laurea su Dancin’ Days, la soap opera che aveva fatto fermare le sedute del parlamento brasiliano. Oggi questo, semplicemente, non potrebbe più succedere.

 

Immagini tratte da TV70: Francesco Vezzoli guarda la Rai, in Fondazione Prada a Milano dal 9 maggio al 24 settembre 2017.