Attualità

Vestirsi da adulti

Arriva per tutti il momento in cui ci si guarda allo specchio vestiti "da giovani" e ci si sente ridicoli?

di Cristiano de Majo

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Mark Zuckerberg non esattamente a suo agio mentre indossa giacca e (una brutta) cravatta per l’audizione al Congresso in cui accetta di prendersi le sue responsabilità sui casini di Facebook, ci fa pensare a tutte le occasioni in cui abbiamo dovuto scegliere un abito formale controvoglia. Il supernerd di Silicon Valley, che mette sempre la stessa maglietta e sempre gli stessi jeans, costretto nel completo scuro, diventa una replica disagiata di se stesso, così come repliche di noi stessi siamo stati ai matrimoni, alle sedute di laurea, ai colloqui di lavoro, e tutte quelle volte in cui abbiamo dovuto indossare un involucro senza sentirci veramente in quella pelle.

Crescendo e diventando adulti, può succedere in verità anche il contrario. E cioè che i vestiti “da giovane” che ti sembravano assolutamente normali e in cui ti sentivi a tuo agio, inizino ad apparirti ridicoli, o per lo meno ridicoli addosso a te. Cresciuto in un’epoca post-formale e nel mito dell’eterna giovinezza, vissuto in un ambiente professionale privo di codici di stretta osservanza, non pensavo che sarebbe mai successo a me. E invece è successo e dev’essere qualcosa che ha a che fare con la vita adulta e la cosiddetta mascolinità.

Adesso nel mio armadio ci sono felpe, magliette con scritte, jeans consumati che restano lì piegati. Qualche mattina mi viene voglia di metterli, poi mi guardo allo specchio e provo un senso di disagio: è una sensazione speculare a quella che provavo anni fa quando, appunto, dovevo indossare dei completi o addirittura mettere la cravatta, speculare anche perché in fondo produce lo stesso pensiero: quel “vestito così sembro un coglione” che ti impone di cambiarti.

È veramente difficile capire come, quando esattamente e perché succeda anche in questi anni in cui le sneaker sono diventate calzature eleganti, gli anni in cui anche i brand tradizionalmente formali seguono da molti punti di vista l’ispirazione dello streetwear. Secondo l’esperto di Esquire Uk, vestirsi da adulti oggi – bisogna addirittura andare dal sarto, dice lui – è una risposta necessaria e rivoluzionaria all’infantilizzazione della società. Secondo Vanessa Friedman, che nel 2016 scrisse sul New York Times un piccolo editoriale gioiello intitolato “How to dress like an adult”: «Vestirsi da adulti serve in qualche modo a distinguere il te stesso cresciuto dal te stesso adolescente; è un modo per dire a te e a quelli che ti guardano “io sono questo in questa fase della mia vita”».

È una spiegazione piuttosto convincente per chi come me non ha mai subito il fascino del papà o del nonno in vestiti formali e adesso si ritrova a indossare capi classici come trench e giacche con la fierezza – è imbarazzante ammetterlo, ma c’è – di portare avanti la lunga tradizione dello stile maschile con quei pochi capi obbligatori che servono allo scopo. Vestirsi è la comunicazione di quello che sentiamo di essere diventati, e anche se, ovviamente, ognuno di noi è mille cose insieme – ascoltiamo musica rap, ma anche musica classica, ci piace andare a cena a ristorante, ma anche alle feste nei locali – il modo in cui vestiamo non può rispecchiare plasticamente questa schizofrenia: si tende a sentirsi più a proprio agio con un’immagine che giorno dopo giorno sia più o meno simile.

C’entra qualcosa anche la dialettica tra ordine e disordine che tutti ci portiamo dentro. I “giovani”, almeno dalla loro invenzione in poi (anni ’60), hanno assoluto bisogno di manifestare anche esteticamente il disordine dei loro pensieri, dei loro gusti, delle loro scelte. Non credo che questo disordine si diradi poi così tanto crescendo. Quello che cambia è il bisogno di esprimerlo col proprio aspetto. Da adulti capiamo quanto sia conveniente da un punto di vista evolutivo mascherare i nostri tormenti piuttosto che esibirli.  Così restando disordinati al nostro interno, ci sentiamo a nostro agio apparendo almeno ordinati fuori, come insegna Don Draper, l’uomo più emotivamente disordinato ma più ordinatamente vestito dell’estetica recente.

 

In evidenza e testata Michael Caine nel 1965 (Getty), all’interno: Cary Grant in una pubblicità Aquascutum del 1955.