Attualità

Anatomia del potere italiano

Gianni Riotta su Il memoriale della Repubblica di M. Gotor. Guardare indietro per tornare a guardare avanti

di Gianni Riotta

Venerdì 16 marzo cadeva il 34esimo anniversario del rapimento di Aldo Moro, consumatosi nel sangue della strage di Via Fani.
Partendo dai fatti di quel periodo, e dalle complesse dinamiche che ne sono scaturite, nel 2011 il Professor Miguel Gotor, editorialista di Repubblica, ha dato alle stampe Il Memoriale della Repubblica, Gli scritti di Aldo Moro dalla prigionia e l’anatomia del potere italiano. Un volume fondamentale per la comprensione della complicata vicenda. Qualche mese fa abbiamo chiesto a Gianni Riotta di scrivere un piccolo saggio a commento del libro di Gotor.
Lo riproponiamo in occasione del triste anniversario.

 

Poco dopo l’uscita del saggio Il memoriale della Repubblica, Gli scritti di Aldo Moro dalla prigionia e l’anatomia del potere italiano dello storico Miguel Gotor, mi sono imbattuto per caso in un vecchio conoscente romano, il cui nome ha un discreto numero di citazioni nell’indice. «Ha letto il libro di Gotor?» gli ho chiesto incuriosito e lui di rimando «Bellissimo, fantastico, ha il suo indirizzo mail voglio scrivergli per complimentarmi!». Peccato che quel signore sia ritratto come un opportunista tra i tanti, pronto ad infilarsi fra le pieghe dell’inchiesta per avere vantaggi personali. O non ha letto e millanta, o l’ha letto e mente trent’anni dopo, un atteggiamento congruo col “caso Moro”, dove menzogna, inganni, false identità, coscienza e memoria ricostruita a convenienza sono perenni.

Nadia Mantovani, classe 1950, condannata a 20 anni e due mesi per terrorismo, banda armata, sequestro di persona, rapina e associazione sovversiva, ex compagna del fondatore delle Brigate Rosse, il sociologo Renato Curcio, è oggi –per quanto ci sia noto- l’ultima “testimone oculare ancora in vita ad avere avuto tra le mani la versione integrale dei dattiloscritti” con il memoriale del presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro, ex ministro e presidente del Consiglio, rapito il 16 marzo del 1978 dalle Br, tenuto in ostaggio per 55 giorni e infine assassinato e abbandonato al centro di Roma, in via Caetani, in una Renault R4 rossa icona della fine della Prima Repubblica e delle speranze di una riforma morale del paese. Mantovani fa parte di un club esiguo, perché esaminare, analizzare o utilizzare per primi quelle pagine, trascritte dal brigatista Gallinari con atroce ignoranza, politica e grammaticale, lascia una macabra alternativa, o si muore ammazzati o ci si chiude nell’omertà.

Cadono il giornalista Mino Pecorelli del periodico OP e tre ufficiali dei Carabinieri, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, il suo collaboratore generale Enrico Galvaligi, il colonnello Antonio Varisco, assassinati tra il 1979 e il 1982, la grande faida sulle carte lasciate da Moro nel carcere dove viene torturato psicologicamente e costretto a crudeli privazioni fisiche dalle Br. L’omertà dei brigatisti anima due tribù, lontane in apparenza, unite nella realtà. Da una parte i «pentiti più importanti della storia della lotta armata in Italia», Patrizio Peci e Roberto Sandalo e la dissociata Mantovani, che pedinata conduce i carabinieri di Dalla Chiesa nella base Br di via Monte Nevoso a Milano dove, in due misteriose puntate, appare il Memoriale Moro. Terroristi che «strinsero a suo tempo un’intesa con lo Stato…» per «…ricordare alle istituzioni di rispettare quel patto fino in fondo, lasciando baluginare in modo all’apparenza distratto, ma minaccioso, i propri preziosi segreti di lettori precoci degli scritti del prigioniero». Quanto agli altri brigatisti «…dalla Braghetti a Maccari, da Moretti a Gallinari, da Azzolini a Bonisoli, da Morucci alla Faranda, da Fenzi a Senzani, hanno scelto dopo il loro arresto il riserbo più totale sull’argomento. Erano infatti ben consapevoli che, se avessero voluto uscire di prigione vivi e, magari, prima del tempo, avrebbero dovuto onorare un altro tipo di patto non scritto con le istituzioni: quello del silenzio». Le carte di Moro uccidono o azzittiscono chi ha avuto il destino di leggerle prima che la doppia censura, dei brigatisti e delle inchieste protrattesi per anni, ce li consegnasse nella loro monca attuale versione.

Studioso del Cinquecento, Miguel Gotor da anni si appassiona al caso Moro, con l’edizione critica delle Lettere dalla prigioniadel leader Dc (Einaudi 2008) e con Il memoriale della Repubblica, (Einaudi 2011). Chi non ne affronta le dense 622 pagine, preoccupato di riaprire dentro se stesso le tragedie dell’Italia ‘78, sbaglia: perché non saprei indicare una lettura migliore per capire l’Italia del XXI secolo, Berlusconi e Pd, crisi economica e Beppe Grillo, precari e nuovi ricchi.

Persuaso con lo studioso Marc Bloch che lo storico debba “comprendere” e non gridare “Alla forca!”, Gotor riesamina il destino straordinario delle pagine che Moro compone in detenzione, i brigatisti trascrivono e alterano, scomparse e riapparse, filtrate e censurate. Non parla dell’Italia di una generazione or sono, parla dell’Italia di oggi e, nella deriva seguita alla morte di Moro, riconosce i nostri mali, l’inerzia opportunista di una classe dirigente provinciale, i clan faziosi dell’opinione pubblica, guidati da media furbi e parziali, apparati statali dove convivono eroi, professionisti, ruffiani e gaglioffi, un reticolo di lobbies, famiglie e clientele che legano destra a sinistra, poteri economici a malaffare. In superficie si combatte, in profondità si scambiano favori e si fanno affari.

Riconoscerete personaggi eterni, maschere della Commedia dell’Arte di un paese che non matura: il Sociologo un po’ spia del Mossad israeliano ma schierato con le prime Br; il Fratello Terrorista sconosciuto dello scrittore famoso; lo Studioso di Geopolitica che va al maggio ‘68 a Parigi con un leader arrestato per terrorismo e con il figlio di un ex diplomatico dell’Est, ma partecipa alle riunioni del comitato segreto sul caso Moro; il Capo del Kgb in Italia la cui figlia organizza una sorta di welfare di sostegno al latitante Br. E i giochi del “caso”, il borsello del brigatista Azzolini “smarrito” in autobus, il borsello di un falsario legato alla banda della Magliana trovato da due turisti americani “per caso” a Roma. E, “per caso”, i due turisti vivono in una “comune” che una scrittrice userà come sfondo alle romanzesche imprese della terrorista “Gigi”. Ci sono le finzioni palesi, la vecchietta che riconosce il brigatista “per caso”, e le indagini serie, la terrorista trovata confrontando migliaia di prescrizioni di occhiali.

Incontrerete, senza riconoscerli, personaggi che le cronache hanno ridotto a caricatura. Mino Pecorelli il giornalista che accusava il presidente Andreotti di avere usato impropriamente il memoriale Moro e che finisce ucciso: ancora lo si definisce “ricattatore”, ma forse, come provava già la prima biografia a cura di Corrias e Duiz, era uomo più complesso, che alla fine fa il Robin Hood contro il potere. O il falsario della Magliana Tony Chichiarelli, capace di riprodurre capolavori di De Chirico e ideare il depistaggio del comunicato Br con la notizia del cadavere di Moro abbandonato nel remoto lago della Duchessa, che, prima di cadere assassinato, sogna di comprare l’amata squadra dell’Inter.

Gotor ricorda che le carte di Moro ci sono arrivate in tre tragiche puntate. Il 10 aprile 1978, a Moro rapito, numerate di pugno dallo statista, otto pagine manoscritte di accuse all’ex ministro e capo partigiano Dc Taviani; a Milano, nella base Br di via Monte Nevoso il 1 ottobre 1978, 49 pagine scritte a macchina, rinvenute dagli uomini del generale Dalla Chiesa, con parte del memoriale, che viene però reso noto solo il 17 ottobre; infine, dopo un lungo e misterioso sequestro dell’appartamento, il 9 ottobre del 1990, sempre in via Monte Nevoso, durante lavori di ristrutturazione, in un pannello mal celato, saltano fuori fotocopie dei manoscritti del memoriale e buona parte delle lettere di Moro rapito. Chi ha letto, e dove, le carte di Moro dal 1 al 17 ottobre 1978? Dalla Chiesa, Andreotti, il leader del Psi Craxi o il ministro dell’Interno del 1978 e futuro presidente della Repubblica Cossiga? Chi le ha rimesse al loro posto nel “covo” Br e quando? Quali parti sono state manomesse, occultate o distrutte visto che i primi testimoni, come Galvaligi, parlano di un pacchetto di pagine ben più voluminoso? Perché i brigatisti non hanno mai mantenuto l’impegno di rivelare gli originali –che mentendo dicono di avere distrutto– né le registrazioni degli interrogatori di Moro? Quale “patto” lega i superstiti lettori del Memoriale integrale? Perché così tanti lettori “precoci” scompaiono nel sangue? Chi ha voluto cancellare la memoria del Memoriale e perché? Ne esiste, e dove, almeno una copia integrale e originale? Chi la detiene? O è perduta e sarà rinvenuta stavolta davvero per caso, Rotolo del Mar Morto della nostra storia?

Il caso Moro chiude la Prima Repubblica, condanna i suoi partiti fondatori al declino che la fine della Guerra Fredda e l’operazione anti corruzione di Mani Pulite completeranno. I nostri guai di oggi, la diffidenza contro la politica, l’odio contro il sistema, i clan e le faide, sono se non nati, certo incancreniti da quella vicenda. Eppure il saggio di Gotor, recensito con garbo e fair play, non ha ottenuto risposta alle domande che pone. Perché? Perché ribalta la Commedia dell’Arte sceneggiata in trent’anni. I giudici non sono demoni, santi o taumaturghi, ce ne sono di eroici ma altri sono marionette del potere o si illudono di far le veci di una classe politica inane. I giornali, né “voce del padrone”, né “contropotere coraggioso e alternativo”, lasciano linciare Moro fingendo di credere alla favola del “Non è lui!” a scrivere dalla prigionia, per un pugno di copie o per favorire lobbies e partiti di riferimento. Gli intellettuali flirtano con la violenza o non ne comprendono le radici, vanesi, paurosi, scettici. Polizia e carabinieri danno la caccia ai colpevoli e si sacrificano, ma devono poi convivere con politici e partner internazionali. La Nato crea come altrove organizzazioni clandestine di resistenza anti Urss, che da noi diventano serra oscura di eversione e violenza.

Aldo Moro entrerà nella storia come il leader che prova a normalizzare l’Italia, facendone un paese sì schierato nel mondo occidentale, ma indipendente dalla Washington del segretario di stato americano Kissinger come la Francia di De Gaulle, liberando in parallelo il Pci dal marchio sovietico che lo sovrasta. Sfida troppo grande tra miopia americana, cinismo russo, provincialismo italiano e crudeltà brigatista. Nel carcere Br Moro non si comporta da vile che vuol salvarsi, dimenticando la scorta sterminata in via Fani, come sostiene la vulgata democristiana, comunista e dei columnist farfalloni: prova a evitare, con la propria morte, la fine violenta della Prima Repubblica e lo stallo del paese. Non ci riesce e cade stoicamente, scrivendo alla moglie Eleonora: se dopo la morte «ci fosse luce, sarebbe bellissimo». Non ha rivelato, sotto tortura, alcun segreto, politico, militare, diplomatico. La Repubblica non seppe né trattare per salvarlo, né liberarlo con un blitz militare che pure parecchi indizi, se seguiti, avrebbero potuto animare.

La nostra strada è ferma lì. Come allora siamo divisi, incapaci di condividere la storia nel bene e nel male, senza comunità, valori e interessi nazionali, pronti alla viltà, al pugnale nella schiena al nemico oggi per riabbracciarlo ipocriti domani. Poco considerati nel mondo, poco considerati in patria. Anche la Seconda Repubblica, che ha visto Silvio Berlusconi e il centro-sinistra sfidarsi per cinque elezioni politiche, volge ora al fine. Difficile dire quel che saremo negli anni della Terza, anni di agra economia post crisi finanziaria. Diverremo un coacervo di populismi opposti, Nord contro Sud, Casta contro Anticasta, Precari contro Occupati, o promuoveremo una dialettica positiva tra conservatori e progressisti? Le chiavi del futuro sembrano dimenticate nel carcere buio di Moro con il suo autentico Memoriale: là abbiamo smarrito l’unità, i valori condivisi al di là degli slogan, un’informazione equanime, una giustizia serena, una politica capace di visione. Moro l’aveva intuito e, per 55 giorni, provò a superare insieme crudeltà dei rapitori e cinismo dei politici. Dobbiamo recuperare tre decenni. Per questo il cruciale saggio di Miguel Gotor è lambito dall’omertà di troppi: guardare indietro terrorizza chi non guarda avanti.

 

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