Attualità

La coscienza di Zeman

Un libro racconta il Foggia di Zdenek Zeman degli anni '90 e degli anni '10, tra miracoli e cadute

di Davide Coppo

Premessa: in questo articolo si cercherà di non nominare mai, eccezion fatta per questa sacrificata frase, né la parola Juventus né la parola doping, né la parola Vialli.

La Primavera, lui l’ha avuta in Italia, qualche anno dopo quella praghese fallita, in una città piccola e calda della Puglia. Al contrario del grigio sovietismo e dei neri presagi di morte che spingevano i carri armati sul sacrificio di Jan Palach, la primavera di Zdenek è stata rossa e nera, come i pomodori del Tavoliere e i nigeriani che li raccolgono sotto un sole che non è poi così diverso rispetto a quello in cui sono cresciuti, come i colori della maglia dei Satanelli foggiani. La storia seleziona, disseziona, imbalsama una parte e getta via il resto: e di Zeman il boemo silenzioso rimarranno, probabilmente, i successi di Foggia, la cravatta regimental troppo larga e il blazer nero su cui spiccava, ingombrante e molto kitsch, il profilo del diavolo bicolore, cucito con malcelato orgoglio sulla divisa societaria.
Della sua storia e del suo fascino, del suo cipiglio perennemente abbronzato nonostante i natali slavi e sovietici, dei suoi silenzi e delle sue Marlboro parla Giuseppe Sansonna in un libro uscito recentemente per minimum fax, parte di un cofanetto (comprendente anche due dvd) tutto dedicato a Sdengo. Anche questo servirà a conservare il ricordo dello Zeman pugliese, silenzioso condottiero di formazioni caciarone e sfrontate.

Arrivato al sole dello Zaccheria nell’estate africana del 1986, Zemàn, come lo chiamano tuttora i suoi ex tifosi, è sconosciuto e mal visto. Già profeta di un calcio votato all’attacco e alla folle irresponsabilità tattica con il modesto Licata, si era presentato con i suoi ad affrontare il Foggia con gli occhi di Peppino Pavone e Don Pasquale Casillo addosso. Pavone, direttore sportivo, si è innamorato da tempo del mister di quel Licata che segna, incassa, e soprattutto non smette mai di correre. Casillo, folkloristico presidente napoletano, imprenditore di successo nel campo dell’export e solerte risparmiatore nonostante l’ampio portafogli, in tribuna d’onore attende di valutare quel ceco dal nome impronunciabile, che il suo fido dg gli ha caldamente raccomandato. Il Licata perde quattro a zero. Zeman dichiara in sala stampa, epigrafico e gutturale già allora: «Risultato bugiardo. Noi fatto gioco, loro gol. Buonasera». Don Pasquale invece, meno composto e più sbottonato, gesticola e si sfoga con Pavone: «Peppino, tu sei pazzo. A ‘stu Zemàn nun ‘o vol’ nisciun’». Ma Pavone insiste, punta sul basso costo del boemo e Casillo si fa convincere. Zdenek, d’altro canto, accetta con entusiasmo la prospettiva di giocare in uno stadio di quindicimila posti, spesso esaurito, catino di fanatismo e passione verace. Ma dopo appena sette giornate, si scopre il tradimento: Sdengo viene visto a cena con l’allora direttore sportivo del Parma, Luciano Moggi. Senza neanche tempo di balbettare il “non è come sembra, posso spiegare” di rito, viene messo alla porta dall’otelliano Casillo. Come nelle coppie che si amano troppo, l’episodio lascia una ferita non ancora rimarginata. Nel documentario curato da Sansonna, Zeman ripercorre a parole quei giorni, interrotto dal diktat del patron, che sbraccia tarantolato sul divano: «Non tirar fuori questa storia, non mi ci far pensare, che poi se parlo io…». Sdengo il figliol prodigo sorride sornione e scuote la testa divertito.

E infatti, tradimento o non tradimento, tornerà, il taciturno ceco, in quella che sarà di lì a poco la Sua Foggia. Solo due anni dopo, quando un Don Pasquà atterrato in elicottero allo Zaccheria lo presenta all’esultante pubblico come colui che prenderà il timone dei Satanelli appena promossi in serie B. Era il 1989 e cominciava lo spettacolo che sconvolse l’Italia calcistica. Cominciava Zemanlandia.
Sansonna, con penna agile, coltissima e divertente, snocciola aneddoti, dipinge scenografie, fa parlare i protagonisti del Foggia di ieri e di oggi, con lo sfondo immutato dello stadio, ora vuoto per gli allenamenti, ora stipato da migliaia di ugole adoranti e fumogeni fumanti a spingere undici ragazzini che non passavano mai la palla all’indietro, primo dei tanti comandamenti zemaniani. Ci sono le partite a scala quaranta e a ciapanò interminabili prima e dopo i match, con lo staff tecnico, il massaggiatore, il magazziniere e l’allenatore, unico volto silenzioso e biondo in un tavolo di bruni meridionali dalla risata sguaiata e la bestemmia facile. Ci sono i gradoni dello Zaccheria, con i giocatori che si spezzano reni e polmoni a saltarli fino allo sfinimento, con il glaciale boemo, in tuta rossonera, braccia conserte e sigaretta perenne, ad osservarli severo dall’alto, mormorando soltanto qualche rimprovero tutto suo, l’accostamento dell’agilità del malcapitato terzino a quella della nonna praghese. Ci sono le vittorie e le sconfitte, centinaia di difese scardinate dal tridente e altrettante centinaia di goal puntualmente subiti. Ci sono Signori, Baiano, Rambaudi, Shalimov e Kolyvanov, ma anche i contemporanei Moussa Konè e Simone Romagnoli. Ci sono i campi aridi e malconci della Serie B e C, i difensori ruvidi e rozzi e gli attaccanti scorretti, navigati provocatori, i presidenti delle divisioni minori dalla fedina penale mai immacolata, e in mezzo i ragazzi di Zeman che corrono, passano (sempre in avanti), tirano, fanno goal e subiscono goal, i tifosi che esultano, fanno scoppiare bombe carta e oscurano il cielo con il rosso dei fumogeni, gridano gioia o fischiano rabbia e paura, invadono il campo, danno del cornuto all’arbitro, all’avversario. Spostano la palla dentro o fuori la porta con il fiato. C’è il sogno della A, realizzato, e quello della coppa Uefa, sfumato per quel maledetto Napoli allenato da Marcello Lippi, c’è il ritorno della scorsa stagione, c’è l’addio. Non ci sono le polemiche, non ci sono i tanti fallimenti, dal Napoli al Fenerbahce, non ci sono le coppe o gli scudetti perché Zeman, narciso e forse tacitamente presuntuoso, non li ha mai vinti. C’è Foggia, lo Zaccheria e in panchina c’è lui, immobile, Marlboro accesa e mani in tasca. E se qualcuno non corre, con voce cavernosa ma senza scomporsi, gli dice severo: «Sembri mia nonna».

 

Il ritorno di Zeman
Giuseppe Sansonna
minimum fax
libro + 2 dvd
103 pp, 18 €

Foto: Getty/Graham Chadwick