Attualità

Uccidere per finta

Prendi due gangster indonesiani e fagli "recitare" i loro omicidi a decenni di distanza: la disturbante fiction-realtà di The Act of Killing.

di Federico Bernocchi

Kusno Sosrodihardjo, conosciuto come Sukarno, è stato il primo Presidente dell’Indonesia. Ha governato il paese dal 17 agosto del 1945, giorno della Proclamazione dell’Indipendenza Indonesiana dai paesi Bassi (l’indipendenza la raggiungeranno poi effettivamente solo due anni dopo, nel 1949), fino al 12 marzo del 1967, giorno della sua morte. Sukarno è venuto a mancare in casa sua, ma la sua è stata una morte tutt’altro che serena. Nel 1960 Sukarno cominciò ad appoggiare il PKI, il Partito Comunista Indonesiano che, grazie all’aiuto dell’Unione Sovietica e della Cina, mise in atto una serie di politiche anti imperialiste particolarmente aggressive.

Questa parte della storia dell’Indonesia dura fino al 1 ottobre del 1965 quando le autoproclamatesi Forze Armate Nazionali Indonesiane tentano un colpo di stato uccidendo sei generali dell’esercito e prendendo in custodia il Presidente Sukarno, che viene sostituito con il secondo Presidente dell’Indonesia, Suharto. Il golpe fallirà da lì a poco e dunque, non sapendo come uscire da una situazione politica difficile, la colpa viene interamente riversata sul PKI e sui comunisti. A questo punto l’esercito comandato dal generale Lubang Buaya comincia a interrogare, torturare e uccidere tutti i reali o presunti comunisti. Dal 1965 al 1966 si calcola un numero di morti impressionanti che, secondo alcuni dati, va da 78 mila a un milione. Tra le file dell’esercito, con il preciso fine di uccidere, vengono arruolati anche i cosiddetti gangster.

I due gangster in questione non hanno nessuna remore a parlare del loro passato e a raccontare le orribili nefandezze che hanno fatto durante quegli anni. Anzi: hanno acconsentito a rimettere in scena i loro omicidi, esattamente come li ricordavano

E qui dobbiamo fare una piccola digressione etimologica. Prima dell’occupazione dei Paesi Bassi, il termine indonesiano che indicava un fuori legge era jago che letteralmente vuol dire gallo. Jago, nell’età moderna, si trasforma in “preman”, parola mutuata dal termine tedesco “vrijman”, ovvero “uomo libero”. In Indonesia dunque gangster vuol dire “uomo libero”; una persona al di sopra della legge, delle convenzioni sociali, degli obblighi religiosi. Tra i vari gangster arruolati dall’esercito indonesiano per interrogare e uccidere i comunisti si distinsero particolarmente due ragazzi che all’epoca vendevano biglietti per il cinema nella città di Medan, capoluogo della provincia di Sumatra settentrionale. I loro nomi sono Anwar Congo e Adi Zulkadry. Ed è qui che cominciamo a parlare di cinema.

Joshua Oppenheimer è un regista americano con base a Londra profondamente ispirato dal lavoro del suo mentore Dusan Makavejev, una delle figure più influenti di tutto il cinema jugoslavo. Nel 2004 Oppenheimer s’è trasferito a vivere in Indonesia dove ha prodotto una serie di film. Nel frattempo ha cominciato a studiare la storia del paese e a lavorare a un suo documentario. Il risultato è lo sconvolgente The Act of Killing che dalla première del Telluride Film Festival di quasi un anno fa ha fatto incetta di premi in giro per il mondo. Il film vanta tra i produttori esecutivi due nomi come quelli di Werner Herzog ed Errol Morris che dopo aver visto pochi minuti di girato hanno voluto partecipare a tutti i costi.

Ma cosa racconta The Act of Killing esattamente? Oggi i due gangster di cui abbiamo parlato poco sopra, Anwar Congo e Adi Zulkadry, sono due normali e rispettabili signori di una certa età. Il primo, che si calcola abbia ucciso personalmente almeno mille comunisti, abita ancora a Medan, è un nonno e ha ancora stretti rapporti d’amicizia con alcune tra le più alte cariche politiche della zona. Viene considerato il padre fondatore dell’organizzazione paramilitare Pemuda Pancasila, nata negli ambienti degli squadroni della morte e oggi apertamente supportata dal Presidente dell’Indonesia. Il secondo vive a Jakarta e, come dice durante un viaggio in macchina, è convinto che i crimini di guerra vengono definiti da chi le guerre le ha poi effettivamente vinte. E in questo caso chi ha avuto la meglio sono loro, i gangster. Per questo motivo i due personaggi in questione non hanno nessuna remore a parlare del loro passato e a raccontare le orribili nefandezze che hanno fatto durante quegli anni. Anzi, convinti dal regista, si sono prestati a un’operazione assolutamente straordinaria: hanno acconsentito a rimettere in scena i loro omicidi, esattamente come li ricordavano.

The Act of Killing diventa dunque qualcosa di assolutamente inedito: parte come un documentario storico incentrato su alcune figure chiave di un periodo storico per molti non particolarmente famoso, ma poi si trasforma e diventa il diario della ricostruzione cinematografica dei suoi omicidi. Anwar e Adi, con l’aiuto di alcuni loro colleghi e di una troupe cinematografica, rimettono in scena molte loro azioni, mescolandole con la loro immaginazione, con quello che il Cinema (quello americano che il PKI voleva bandire e quello di propaganda indonesiano che presentava i i comunisti come dei sadici pazzi) ha insegnato loro. Non si limitano dunque a ricostruire “normalmente” i raid che facevano in piccoli villaggi dove davano fuoco alla case, stupravano le donne e uccidevano gli uomini (cosa che comunque fanno, divertendosi come dei bambini in gita), ma spesso aggiungono alle loro scene elementi totalmente esterni e folli. In molte delle sequenze che vengono girate, il giovane Herman, militante di Pemuda Pancasila, è travestito da donna. Anwar sceglie di girare un’intera sequenza come se fosse in un film western, per cui si aggira con un bel cappello alla John Wayne e con tanto di cavallo nella giungla dove poi, circondato dagli elefanti, simula l’uccisione di un uomo. Ci sono ballerine che escono danzanti da una gigantesca struttura a forma di pesce, fantasmi di comunisti che ringraziano i loro aguzzini regalando loro delle medaglie d’oro, mostri dalle forme animalesche che animano gli incubi di Anwar e molto altro ancora.

Riguardando seduti sulle loro poltrone le sequenze girate il giorno prima alcuni di questi personaggi capiscono quello che hanno fatto e si trovano di fronte a una realtà che fino ad allora avevano in qualche modo negato

L’intuizione di Oppenheimer è assolutamente geniale e il paradosso che si viene a creare è sconcertante. The Act of Killing è quindi un documentario che parla della forza delle immagini. Nel momento in cui ci si rivolge alla potenza evocativa del Cinema per raccontare (una versione) della Storia, le cose si fanno via via sempre più complesse. Il processo creativo alla base del cinema, l’immaginazione, la finzione, sembra essere l’unico modo per i protagonisti di intuire, rielaborare e rapportarsi alla realtà. Riguardando seduti sulle loro poltrone le sequenze girate il giorno prima in cui, magari vestiti come dei gangster da film noir di second’ordine, picchiano e strangolano un presunto comunista (alcuni di) questi personaggi capiscono quello che hanno fatto e si trovano di fronte a una realtà che fino ad allora avevano in qualche modo negato e tentato di giustificare. The Act of Killing è un film estremamente disturbante, difficile da digerire. Non solo per una sua forse eccessiva lunghezza (difetto a cui si passa facilmente sopra anche grazie alla potenza della storia), ma soprattutto per la facilità con cui ci mostra come nel mondo esistano persone che hanno a che fare giorno per giorno, nel mondo reale, con una violenza parossistica, esagerata ed estrema. Quella violenza che noi spettatori comuni siamo abituati a vedere su schermo e che riusciamo ad accettare solo perché rassicurati dalla sua evidente illusorietà, diventa qui più vera della verità storica. Con tutte le conseguenze del caso. Se avete il coraggio, recuperatelo al più presto.