Attualità

Twittare con cautela

Gerusalemme, la nuova corrispondente del New York Times si mette nei guai prima ancora di iniziare

di Anna Momigliano

Jodi Rudoren è una donna sulla quarantina con un taglio di capelli indifendibile. Per anni è stata la responsabile della sezione “educazione” del New York Times e a breve, come annuncia il suo profilo su Twitter (cioè: “Soon to be Jerusalem bureau chief of the NYT”) sarà trasferita in Israele.

La poveretta non sa che cosa la attende. Avete presente che cosa voglia dire seguire – per uno dei quotidiani più seguiti del globo – un conflitto che non solo riceve una copertura mediatica massiccia, ma la cui stessa copertura mediatica diventa spesso e volentieri oggetto di discussioni, polemiche e trattati di etica giornalistica. Per dirne una: una reporter israeliana, che peraltro stimo molto, ha scritto una tesi di Master sull’evoluzione del termine “filo-israeliano” in base gli archivi del New York Times. Ok, questo è un caso limite, ma vi basti sapere che esistono molti siti dedicati all’unico tema “monitoriamo come la stampa parla di Israele e/o di Palestina,” in Italia abbiamo Informazione Corretta. In altre parole il carico ideologico/politico/emotivo del conflitto è tale che non appena uno utilizza, fosse anche solo per inciso, le parole “Israele” o “Palestina,” facilmente si ritrova sommerso di lettere, e-mail e commenti (a questo proposito: Settimana Enigmistica tu quoque). E non importa da che angolo tu guardi la questione: ci sarà sempre qualcuno che penserà che sei troppo filo-palestinese e qualcun altro che penserà che sei troppo filo-israeliano. E tutti e due terranno parecchio a fartelo sapere. È il Medio Oriente, baby.

Ma, si diceva, quando ha accettato il nuovo lavoro Judy Rudoren non sapeva ciò che la stava aspettando. Dobbiamo credere che non lo sapesse. Altrimenti proprio non ci possiamo spiegare alcuni faux pas su Twitter.

A poche ore dall’annuncio del suo nuovo incarico, la giornalista del Nyt ha, nell’ordine: segnalato un articolo di Al Akhbar, testata libanese che spesso ha espresso posizioni filo-Hezbollah; twittato amichevolmente con il fondatore di Electronic Intifada Ali Abunimah; speso qualche riga di commento positivo su un saggio intitolato La Crisi del Sionismo appena pubblicato da un tizio che lavora a The Daily Beast.

E che c’è di tanto grave?, direte voi. Sappiamo tutti che i retweet non sono endorsement, che rispondere a un tweet cortese di un collega non equivale a condividerne le tesi; e quanto al libro del tizio di The Daily Beast, non avendolo letto mi astengo dal commentare.

Di grave, infatti, c’è solamente la colossale ingenuità di Rudoren. Possibile che nessuno le abbia spiegato che ogni sua sillaba sarebbe stata oggetto dello scrutinio generale dal momento stesso in cui aveva accettato il lavoro? Infatti da suoi tweet innocenti è nata una guerra mediatica che riassumeremo brevemente così: Foreign Policy pro, The Atlantic contro, il Jerusalem Post sul piede di guerraPolitico.com che se la cava con un’intervista, e Haaretz che alza gli occhi al cielo.

Jeffrey Goldberg scrive su The Atlantic:

[Rudoren] si è lavorata Ali Abunimah, un attivista palestinese che sostiene la distruzione di Israele, ha anche tessuto le lodi dell’ultimo libro di Peter Beinart, definito “terrificante: provocatorio, leggibile, pieno di reporting e di riflessione.” Ha linkato anche senza commentare un articolo di un giornale pro-Hezbollah libanese. Tutto questo sarebbe andato bene, naturalmente… se non fosse per il fatto che lei sta cominciando uno dei lavori più sensibili nel giornalismo. Non conosco Rudoren. Ma il mio consiglio è quello di smettere di twittare come se fosse un funzionario di J Street (gruppo di pressione progressista, NdT) e ricordarsi che il suo lavoro consiste nel crearsi delle fonti da tutte le parti del conflitto.

Stephen Walt risponde su Foreign Policy che quello di Goldberg è un “attacco preventivo” per intimidire la nuova corrispondente e se la prende, come suo solito, con la “lobby filo-israeliana” rea di prendere i giornalisti per sfinimento:

Come mi ha detto un ex portavoce del consolato israeliano a New York:, “Certo, c’è molta auto censura. Giornalisti, editori e politici ci pensano su due volte prima di criticare Israele, se sanno che stanno per arrivare migliaia di telefonate in poche ore.”

Anshel Pfeffer dice la sua su Haaretz, partendo da una considerazione molto pratica: se, la scorsa settimana, Sky News ha indicato ai i suoi giornalisti di fare attenzione a quello che twittano, un motivo ci sarà. In un’intervista a Politico.com, Roudren si è difesa sostenendo che sarebbe un peccato smettere di twittare in quanto corrispondente del Nyt a Gerusalemme, “perché molte persone seguono le notizie su Twitter.” Al che Pfeffer obietta:

Ha ragione – sempre più persone si informano su Twitter, ma è altrettanto vero che sempre più spesso la gente giunge a conclusioni affrettate sulla base dei 140 caratteri. Dobbiamo evolvere adattando il nostro uso dei nuovi media agli standard professionali e alle circostanze dei nostri messaggi. Forse Roudoren avrebbe fatto meglio ad andarci piano su Twitter.

Già.