Attualità

Tutti muti

A un anno dall'exploit di The Artist, una panoramica sulle ispirazioni del trionfatore degli scorsi Oscar (tra cui Mel Brooks) e le imitazioni che ha generato.

di Federico Bernocchi

L’anno scorso, per l’esattezza il 26 febbraio del 2012, all’allora Kodak Theatre di Los Angeles (oggi Dolby Theatre) fece incetta di premi un bizzarro film francese intitolato The Artist. Oscar come miglior film, miglior regista per Michel Hazanavicius, miglior attore protagonista per Jean Dujardin, migliori costumi per Mark Bridges ed infine, miglior colonna sonora per Ludovic Bource. Un bottino ricchissimo: 10 nominations e ben 5 statuette portate a casa per un film che, alla sua comparsa nel panorama cinematografico, difficilmente avremmo potuto immaginare come asso pigliatutto della serata. Per una lunga serie di motivi: perché era un film francese (anche se poi distribuito negli States dai Wenstein) diretto e interpretato da dei perfetti sconosciuti per l’Academy, ma soprattutto perché si trattava di un film muto. Meglio: si trattava di un omaggio all’epoca del cinema muto, girato in uno splendido bianco e nero con addirittura le care e vecchie didascalie. Una scelta che in un’industria che punta sull’intrattenimento sempre più tecnologicamente sofisticato, che punta sul digitale, sull’alta definizione visiva e sonora, su gimmik come il 3D, al grido di “più grande, più bello!”, poteva tranquillamente essere considerata come un suicidio.

E invece le cose non sono andate così, anzi. Fin da subito The Artist ha fatto incetta di premi, riconoscimenti e ottime recensioni. Da Cannes in avanti non si faceva altro che parlare di questo curioso film muto e in bianco e nero, del suo coraggio, della sua presa di posizione apertamente polemica e politica nei confronti di un’industria che col tempo stava perdendo quello che era il suo punto di forza: raccontare le storie. Oltre dunque a un piacere estetico, figlio di un rivolgersi a un passato idealizzato (e che presumibilmente molti di quelli che hanno riempito le sale per vedere il film di Hazanavicius, non conoscono), la scelta di rifugiarsi nel film muto, nella sua semplicità e nella sua immediatezza, è stata dettata dunque da un’idea di ripartenza, di ritrovata verginità (e genialità).

Riguardare The Artist oggi, a distanza di più di un anno dal clamore che ce l’ha anticipato, mette quasi tenerezza per alcune scelte fin troppo semplicistiche. I riferimenti a Cantando Sotto La Pioggia, le insistite metafore che vedono per esempio il vecchio divo George Valentin perire nelle sabbie mobili, la paura della tecnologia, sono tutti elementi eccessivamente calcati. La cosa è strana, soprattutto se pensiamo alla passata carriera di Hazanavicus e Dujardin, che insieme  hanno firmato due filmetti come OSS 117: Cairo, Nest of Spies e OSS 117: Lost in Rio. Certo, anche questi due ultimi titoli guardano al passato, allo spy movie e agli anni ’60, con una certa malinconia e ammirazione, ma l’intento è più apertamente comico, parodistico, piuttosto che polemico. Non si mette in dubbio la buona fede del regista, che sicuramente ha colto nel segno, ma forse s’è rischiato di leggere in quel film qualcosa che forse non c’era, o che semplicemente era destinato a rimanere più in superficie.

Ciò detto, The Artist è stato senza dubbio il film dell’anno appena passato e la sua influenza non ha mancato di farsi sentire. Mentre la distribuzione italiana (e non solo) non ha perso tempo facendo la solita figura da avidi mercanti, ritirando fuori anche il filmino della comunione di Dujardin per spacciarcelo come “il nuovo film con l’interprete di The Artist“, in men che non si dica era partita la Silent Movie Mania. Tutti i Late Night Show d’oltreoceano hanno realizzato sketch o gag impostate sul ritorno del cinema muto, addirittura tutta la cerimonia degli Oscar fu pensata come un gigantesco omaggio ala vecchia Hollywood. Ma poi? Cos’è successo realmente?

Flashback. Siamo a Hollywood nel 1976. Impazzano successi come Taxi Driver, Rocky o La Fuga di Logan. Lo Squalo di Steven Spielberg è dell’anno prima e a Hollywood comincia a diffondersi il concetto di blockbuster. Manca solo un anno all’uscita di Star Wars. In questo slancio verso il futuro, verso la ricerca quasi forzata per la novità, esce Silent Movie di Mel Brooks, clamoroso precedente di The Artist. Il titolo italiano la dice abbastanza lunga: L’Ultima Follia di Mel Brooks. La storia è questa: Mel Funn (Brooks) è un regista che ha attraversato un periodo buio a causa del suo alcolismo. Tenta di rimettersi in piedi e contemporaneamente salvare la famosa Big Picture Studio grazie a una (secondo lui) geniale idea: fare un film muto. Per convincere il solito produttore famelico di soldi, interessato solo al profitto (uguale al personaggio di Goodman in The Artist, con tanto di insistenza sull’amato sigaro, simbolo sessuale di potere e successo) deve però portare a bordo del progetto le più brillanti stelle di Hollywood. Funn, insieme a due suoi amici dementi (gli inseparabili Marty Feldman e a Dom DeLuise), contatta quindi i veri Burt Reynolds, Anne Bancroft, James Caan, Liza Minnelli e Paul Newman, ma deve fare i conti con un’altra casa di produzione, la Engulf & Devour Corporation, chiaro riferimento alla Gulf & Western’s che proprio in quel periodo si stava comprando la Paramount.
Brooks gioca col cinema, realizzando un film muto nella Hollywood della metà dei ’70, che racconta delle difficoltà cui lui stesso è andato incontro realizzando un film muto nella Hollywood della metà dei ’70. L’idea di fondo, con il dichiarato amore per lo slapstick di Mack Sennet (il fondatore della Keystone, quella che in The Artist diventa la Kinograph), fu all’epoca effettivamente geniale e di rottura, anche se a a ben vedere il film non è del tutto riuscito: alcune gag sono di grana fin troppo grossa o eccessivamente ripetute e il tutto rischia di diventare in fretta un divertimento riservato a Brooks e ai suoi amici. Innegabile però come, con ben 36 anni di anticipo, Brooks abbia intuito le stesse identiche cose di Hazanavicius e compagni. Rimane assolutamente impagabile la piccola parte di Marcel Marceau, famosissimo attore mimo che non aveva mai aperto bocca in tutta la sua carriera che, alla domanda di Brooks sulla sua partecipazione al Silent Movie risponde con l’unica battuta del film: “No!”.
Torniamo ai giorni nostri, cercando quei titoli usciti sull’onda lunga dell’entusiasmo di The Artist. O forse sarebbe meglio dire: film muti che sono usciti dopo The Artist. Perché era presumibile che dopo un successo così inaspettato partisse una sorta di malattia, un’epidemia di nuovo cinema muto, giusto? Era prevedibile? Ma soprattutto: è successo? Così non sembrerebbe. Anche se qualche esempio, alla fine, non manca. Andiamo a vedere quali. Il primo che ci viene in mente è il curioso Blancanieves di Pablo Berger del 2012. Il film, muto, in bianco e nero e con le didascalie, riracconta la favola dei Fratelli Grimm virando il tutto in salsa spagnoleggiante, ambientando la storia nel mondo dei toreri e nella Spagna di fine anni ’20 (la stessa epoca di The Artist).
La storia è quella del famoso torero Antonio Villalta che, rimasto paralizzato dopo essere stato incornato, perde anche la moglie (la bellissima Inma Cuesta) che muore dando alla luce la piccola Carmen (Macarena García). Risposato con la terribile Strega Cattiva/sua infermiera (una straordinaria Maribel Verdú), finisce a vivere in un’enorme villa, vessato dalla donna che lo tiene segregato dal mondo e dagli affetti con lo scopo di ucciderlo per mettere mano alla sua eredità. Dopo la sua morte, la figlia viene aggredita dall’amante della Strega (uno slave militare che passa le sue giornate a fare da cagnolino alla Verdú) e, dopo aver perso la memoria, viene tratta in salvo da una compagnia di nani toreri da circo (i favolosi Los 7 Enanitos Toreros). Ci sarà anche il tempo per un confronto finale, ovviamente in un’arena, prima di una conclusione tutt’altro che lieta e consolatoria.
Pablo Berger, già regista del curioso Torremolinos 1973, scrive e dirige un film splendido e stranissimo. L’idea di filtrare la fiaba all’interno di una Spagna tutta toreri, nani e flamenco e già di per sé vincente, ma si vede che le idee non mancano. L’ispirazione, stando alle dichiarazioni del regista, viene non tanto dal film di Hazanavicius, quanto da una visione di Rapacità di Eric Von Stroheim. Tra l’altro, in alcuni festival, per aumentare il coinvolgimento e l’aspetto filologico dell’opera, il film è stato accompagnato da un’orchestra e cantato dal vivo. Blancanieves ha ovviamente un occhio di riguardo per la ricostruzione estetica del film muto, ma azzarda anche molto in fase di montaggio. Spesso sembra che Berger abbia negli occhi non solo il periodo del muto, ma anche le curiose ricostruzioni di Guy Maddin, geniale regista canadese che da sempre imposta le sue opere come fossero pellicole degli anni ’20. L’aria pesante, da tragedia sanguinosa, si mescola poi con la leggerezza della fiaba e con la costruzione di un quadro, mai così bello e spettacolare. Un piccolo gioiello.
Concludiamo questo breve excursus con un film che non è muto, ma che in qualche modo risulta debitore di The Artist. Si tratta di Hotel Noir di Sebastain Gutierrez, sceneggiatore e regista venezuelano, attivo negli States. Gutierrez, noto principalmente per essere il fidanzato di Carla Cugino, è lo sceneggiatore di perle di cinema involontariamente (spesso. Ma spesso anche no) demenziale. Suo è per esempio lo script di quel pasticcio che fu Gothika, diretto dal povero Kassovitz, o dello scult per eccellenza Snakes On A Plane, il famoso film che vede Samuel L. Jackson prendere a padellate una serie di serpenti su di un aeroplano. Gutierrez ha anche diretto filmetti come Woman In Trouble o Elektra Luxx. Insomma, non un uomo di cinema che passerà agli annali, di questo possiamo dirci sicuri. Eppure il suo ultimo film, Hotel Noir, sembra essere il prodotto della Hollywood più attuale più in linea con (una parte) dall’idea di fondo di The Artist.
La storia è quella dello scrittore hard boiled Danny DeVito dalla cui mente è nato Felix, il famoso detective dei suoi romanzi. Quest’ultimo passa la notte in uno squallido motel prima di regolare i conti con dei killer che sono sulle sue tracce. C’è un po’ di tutto: metacinema, riferimenti al cinema noir, femme fatale, cura nel set e nei vestiti, ricerca musicale e nella costruzione dell’inquadratura. Hotel Noir è uno smaccato, dichiarato, palese omaggio a un tipo di cinema che Gutierrez ha più immaginato che visto. Un mondo dove la battuta pronta di Spillane viene confusa per una trita e ritrita frasettina sagace. Un film dove le ombre o i fari sono messi in quella posizione perché “molto probabilmente si faceva così”. Sigarette senza filtro all’angolo della bocca, ed eccovi pronto un noir. Un orizzonte cinematografico che vorrebbe essere omaggio e che invece finisce molto vicino all’involontaria parodia. La deriva a cui può portare un film come The Artist è drammaticamente questa: una scelta che vorrebbe essere radicale, politica, ma che si trasforma in men che non si dica in barzelletta, in sterile giochini per aspiranti cinefili.