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Il golpe contro Trump è fallito?

Cosa aspettarsi dalla convention repubblicana di Cleveland e come il magnate è riuscito a fare rientrare nei ranghi i ribelli.

di Anna Momigliano

Convention Repubblicani Trump Cleveland

Provate a immaginarvi un presidente come Donald Trump alle prese con un tentativo di golpe in Turchia: «Buona fortuna!», scriveva qualche giorno fa Matthew Yglesias. Il blogger democratico non è l’unico a ritenere Trump – che con ogni probabilità sarà definitivamente coronato candidato dei Repubblicani alla Casa Bianca durante la convention di Cleveland che inizia lunedì – completamente inadatto a gestire la politica estera di quella che, con tutti gli acciacchi del momento e nonostante l’approccio poco interventista dell’amministrazione Obama, resta pur sempre la prima potenza globale. Quello che è interessante, poi, è che dello stesso avviso sono anche molti esponenti dell’establishment repubblicano avvezzi di relazioni internazionali e di questioni di sicurezza: lo scorso marzo, cento analisti di politica estera considerati parte dell’élite repubblicana avevano scritto una lettera aperta in cui avevano definito la candidatura del magnate «un disastro». Tra questi ex consiglieri di Bush padre, di Bush figlio e persino di Reagan, che più recentemente hanno confermato il loro scetticismo in una serie di interviste a Politico.

Mentre il mondo va a rotoli, da Nizza a Istanbul passando per Londra e per Bruxelles, urge un commander in chief con una direzione chiara e la testa sulle spalle; e poco importa che l’anti-interventismo di questa Casa Bianca democratica non ci sia piaciuto affatto, e che molti di noi pensino che abbia contribuito non poco a creare questo caos globale; dovendo scegliere tra Trump e Hillary Clinton, noi stiamo con Hillary: questo il loro messaggio. Anche perché Clinton «non è una neoconservatrice però è suo agio davanti all’idea di un’America potente» ha detto Reuel Marc Gerecht, ex ufficiale della Cia considerato molto vicino ai neocon, sempre a Politico. Tradotto: Hillary non è proprio la mia tazza di tè, ma è più tosta di Obama e, soprattutto, meno imprevedibile del suo rivale.

Repubblicani Cleveland

Trump va a Cleveland con tutto l’establishment, e non soltanto quello della politica estera, contro di lui, vero. Ma anche con un establishment oramai per lo più domato, rassegnato alla sconfitta. Lo si è visto negli scorsi giorni, quando un gruppo di notabili del Grand Old Party s’era riunito per un ultimo tentativo disperato di fermare l’ascesa del tycoon. Hanno provato a introdurre la possibilità per i delegati di votare secondo coscienza, partendo dal presupposto che la coscienza di molti avrebbe impedito loro di votare Trump come invece chiesto dalla base durante le primarie. Il piano però è fallito. Salvo sorprese che per il momento sembrano improbabili, dei 2,472 delegati presenti alla convention si stima che 1,543 voteranno per il magnate, rispettando cioè la decisione degli elettori durante le primarie dei vari Stati. In ogni caso, basterebbero 1,237 delegati per assicurarsi la candidatura alla Casa Bianca. Il Washington Post l’ha definito «la fine del movimento “Never Trump”»: difficile dargli torto.

Il simbolo della rivolta domata è Paul Ryan, il giovane speaker della House of Representatives, che nei confronti del tycoon newyorchese è sempre stato quanto meno freddo, e che era stato tra i primi, tra i grandi nomi del Gop, a ipotizzare in pubblico una possibile rivolta dei delegati. Adesso però sembra essersi fatto una ragione dei fatti. Sarà proprio Ryan ad aprire la convention, in un momento delicatissimo per il suo futuro politico: nonostante la carica e la visibilità, infatti, lo speaker si trova impegnato nelle primarie per essere riconfermato candidato nel suo distretto, il primo del Wisconsin, e c’è chi lo descrive come preoccupato. Il suo rivale, Paul Nehlen, è un protetto di Trump.

Al fianco dello sfidante si è schierata anche Sarah Palin, l’ex candidata alla vicepresidenza nota per le sue uscite all’antitesi del politicamente corretto, che hanno anticipato di quasi un decennio lo stile Donald e infatti a lui assai vicina. Prima che nominasse Mike Pence, il governatore dell’Indiana, come sua scelta per la vicepresidenza, alcuni si aspettavano che Trump avrebbe scelto lei. Palin vorrebbe far fare a Ryan la stessa fine di Eric Cantor, rarissimo caso di speaker della House of Representatives (anche lui Repubblicano) che ha perso un’elezione primaria dopo avere ricoperto una carica così importante. Non bisogna essere dei notisti particolarmente sofisticati per intuire la rappresaglia per avere sfidato il leader. Ryan, dal canto suo, sta spendendo una fortuna in spot televisivi per battere Nehlen. E c’è anche chi pensa che, ora che ha abbassato la cresta, i suoi problemi potrebbero finire: «L’impressione è che Ryan si troverebbe in difficoltà solo se continuasse ad opporsi a Trump», ha sintetizzato David Wasserman del Cook Political Report.

Trump Repubblicani Cleveland

Dunque la rivolta – il tentato putsch, se così vi piace chiamarlo – sembra sedata. Trump continua a stare antipatico all’establishment, ma pare abbia vinto. Dalla sua parte ha una base, una certa base: sono almeno 50 mila i visitatori attesi a Cleveland per la convention, senza tenere il conto dei 1500 giornalisti che copriranno l’evento. Sono attesi anche diecimila manifestanti, decisi a contestare il magnate. Attesa anche una protesta indipendente del movimento Black Lives Matter.

Le forze dell’ordine (Cleveland ha “soltanto” 1,700 poliziotti, di cui ufficialmente soltanto 570 saranno dispiegati per l’evento, anche se non è chiaro quanto quest’ultimo dato sia attendibile) non nascondono la loro preoccupazione. Hanno chiesto al governatore dello Stato dell’Ohio di sospendere ad hoc il diritto di portare armi da fuoco in bella vista. Il timore di disordini, e forse anche di qualcosa di peggio, è evidente. Qualunque cosa accada questa settimana a Cleveland, resta da domandarsi che cosa ne sarà del futuro del Partito repubblicano. Trump ha combattuto contro un establishment intero, lo ha sconfitto, ma per il momento non ne ha ancora plasmato uno nuovo. Ha creato un deserto nel Grand Old Party e lo ha chiamato unità elettorale.

 

Cleveland alla vigilia della convention (foto di Jeff Swensen/Getty Images e di Dominick Reuter/AFP/Getty Images)