Attualità

Ci sedemmo dalla parte dei troll

Internet e i social network ci hanno migliorato la vita, certo, ma avete mai provato a incontrare di persona uno con cui avete litigato online?

di Davide Piacenza

Che vergogna. Che vergogna e che schifo. Che vergogna, che schifo e in che paese abietto che vivo. Ricordo di averlo pensato anni fa leggendo uno dei copiosi interventi di Beppe Grillo, allora più che altro un comico con un penchant per il sociale. Si parlava, in quel giorno di inizio luglio del 2006, di un esperimento condotto da «alcuni ricercatori» che dimostrava l’assoluta pericolosità dei telefonini. Gli studiosi di turno avevano messo un uovo in un portauova di porcellana posto al centro di due telefonini in chiamata fra loro e «dopo 65 minuti l’uovo era ben cotto». «Questo esperimento rivela il vero motivo della decadenza dell’Italia. Il primo Paese al mondo per la diffusione dei telefonini», aveva scritto Beppe, suscitando nel me quasi diciassettenne un moto di indignazione, di rabbia, di urgenza. Dovevo dirlo a qualcuno, perlomeno ai parenti e agli amici. Avrei lasciato un messaggio per rendere imperituro il mio disgusto. Nella sezione dei commenti del blog avevo scorto un utente che poneva dubbi sulla validità dell’esperimento, e dopo rapida analisi mi ero convinto che la preminenza della situazione avrebbe reso l’ingiuriarlo in caps lock una prassi giustificata.

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Da anni ormai in Italia ci scorniamo su formule come “l’odio online”, “l’anonimato”, “il cyberbullismo” dividendoci tra fautori delle potenzialità del web e severi e accorati ammonitori dei suoi punti deboli. Senza pretese di fornire soluzioni definitive a questi dibattiti annosi, nell’ultimo periodo diverso materiale ha aggiunto nuove considerazioni su questi temi, troppo spesso affrontati da chi vede la rete come una realtà piatta e univoca. Adrian Chen, ad esempio, sul Mit Technology Review è andato in Svezia per conoscere i più grandi «cacciatori di troll» della Scandinavia, il giornalista Robert Aschberg e i fondatori di Research Group, un gruppo di dieci attivisti che si mobilita per esporre i più efferati dispensatori d’odio online di Stoccolma e dintorni. Questo team, che peraltro in Svezia ormai gode di una certa fama, dedica il suo tempo a stanare figuri dotati di account intimidatori multipli, utenti che promettono stupri oppure si prodigano a rovinare la vita online altrui con minacce di gruppo e doxxing. Chen apre il suo reportage con la descrizione di una tentata cattura di Aschberg: l’obiettivo di turno «si è rivelato essere un trentenne magro e tranquillo che indossa una felpa col cappuccio e un cappellino da baseball sporco».

Il discorso, pur come detto non nuovo, è oggetto di attenzioni sempre maggiori da parte di ricercatori e studiosi degli scenari digitali. Uno dei testi fondamentali nell’approfondimento dei processi psichici che regolano il comportamento umano su Internet è The online disinhibition effect, un paper di John Suler – professore di psicologia alla Rider University – pubblicato nel 2004. La «disinhibition» di cui parla Suler è un fenomeno che si realizza nel momento in cui l’utente percepisce la sua presenza online come del tutto separata dalla vita reale, una specie di costruzione onirica senza norme né regole da rispettare che inizia e finisce con un click sulla finestra del browser. C’è poi un elemento ben noto alla psicologia sociale che ha trovato nel web un nuovo habitat: la logica del branco, online come offline, può concorrere a “normalizzare” un comportamento che altrimenti sarebbe difficile approvare anzitutto in prima persona.

Si è personaggi, su Internet, e non per un carattere intrinsecamente negativo del mezzo, ma per l’attitudine di noi utenti

Più recentemente, a febbraio di quest’anno, Erin Buckels dell’Università di Manitoba ha provato a dimostrare empiricamente che i troll internettiani mostrano tratti di personalità che ricadono nella cosiddetta “triade oscura” (il termine con cui in psicologia ci si riferisce a narcisismo, machiavellismo – grosso modo l’inclinazione a ingannare e manipolare gli altri – e psicopatia). Risultato: molti degli autodichiarati troll presentavano personalità di questo tipo. Ma soltanto il 5,6% dei partecipanti all’esperimento ha apertamente confessato la sua forma di divertimento proibita, contro un 41,3% di innocenti autocertificati «non-commentatori». Se le forme di trolling più abiette, come quelle descritte da Chen nel suo pezzo, sono universalmente e comprensibilmente condannate, più difficile è esprimersi su casi come quello che riguarda il me minorenne di cui a inizio articolo. Ero stato un troll, nel trattare con pochi riguardi una persona che stava solo sottolineando l’ovvio (ovvero che con ogni probabilità l’esperimento descritto da Grillo aveva poco di scientifico), e per giunta con pacatezza? Probabilmente sì. E avrei usato le stesse parole, In Real Life? Probabilmente no.

Se è vero che uno dei grandi passi avanti tecnologici dell’Internet dei social network è la tanto decantata disintermediazione, è altrettanto riscontrabile un’inclinazione fisiologica all’esagerazione dei toni, al malinteso, a una certa spettacolarizzazione a uso e consumo di un pubblico potenzialmente enorme. Si è personaggi, su Internet, e non certo per un talvolta presunto carattere intrinsecamente negativo del mezzo, ma per l’attitudine di noi utenti. E proprio di psicologia attitudinale si parla sempre più spesso, nell’indagare i lati reconditi della psiche di troll e hater. L’assunto fondamentale di questa scienza vuole che, per quanto coscientemente ci raccontiamo di far seguire le nostre azioni ai nostri convincimenti più incrollabili, la realtà psichica procede in senso opposto: prima le azioni, poi la loro razionalizzazione a opera dell’intelletto. Maria Popova su Brainpickings cita un passo dei diari del filosofo danese Søren Kierkegaard. Kierkegaard, che pure nel 1847 non aveva né Facebook né Twitter, descrive l’incontro con un gruppo di tre uomini appena al di fuori della sua proprietà. I tre «iniziarono a ridere e cominciarono tutti insieme a prodigarsi in ogni serie di insolenza». Il filosofo, avendo notato che stavano fumando sigari, si rivolse a uno di loro per chiedergli da accendere. Ciò che avvenne in seguito, nel dispaccio proveniente da 177 anni fa:

Tutti e tre si tolsero il cappello all’istante e sembrava che gli avessi fatto un piacere chiedendo loro da accendere. Ergo: le stesse persone sarebbero state felici di gridare “bravo” se avessi rivolto loro una parola non dico lusinghiera, ma amichevole; invece gridano pereat [che muoia] e sono sprezzanti. È tutto riferito al recitare una parte, ma quant’è interessante conoscere l’umana psiche in questa maniera.

Un bellissimo intervento sulla discrepanza tra vita online e offline l’ha offerto recentemente Sam Biddle di Gawker in un pezzo firmato sulla sua testata. Più o meno un anno fa, il 20 dicembre 2013, Biddle rovinò letteralmente la vita a Justine Sacco, responsabile globale delle comunicazioni del colosso digitale IAC. Sacco prima di partire per un volo per il Sudafrica, dove avrebbe passato il Natale in famiglia, twittò: «Going to Africa. Hope I don’t get AIDS. Just kidding. I’m White!». Biddle fece uno screenshot del tweet palesemente offensivo e razzista e lo pubblicò su Gawker. Nel giro di poco tempo su Twitter montò una protesta molto partecipata, raccolta attorno all’hashtag #HasJustineLandedYet, dove in molti chiedevano le scuse di Justine, in moltissimi auspicavano un suo licenziamento e un numero imprecisato di persone si abbandonava a epiteti irriferibili e minacce di morte. Entro la sera seguente Justine Sacco non aveva più un lavoro.

Sei mesi dopo, però, Sacco decise di scrivere a Biddle e chiedergli di incontrarlo per bere qualcosa insieme. Lui, scrive, non si ricordava nemmeno più di lei: era stato un giorno di lavoro come un altro, dopotutto (Sam Biddle è un tipo di giornalista che in Italia per certi versi rimane inedito, occupandosi in maniera estensiva e approfondita di immaginari tech e Internet culture). Per lei era stato l’inizio di un calvario. L’elemento più rilevante della vicenda è che né a Biddle, né a me, né a nessun altro era passato per la mente che il messaggio della donna potesse avere un altro significato, o un obiettivo diverso dal fare pessima ironia su un tema delicato. Non c’erano dubbi. Eppure, dice Biddle scrivendo del loro incontro, «è emerso che Justine Sacco non è un mostro razzista. È una donna gentile e accorta che ha buttato giù cocktail, mangiato in modo fine e parlato con esperienza di software. Abbiamo discusso del college, dei posti di lavoro, della casa, delle nostre famiglie e delle rispettive occupazioni». Nelle intenzioni originali di Sacco quel «Just kidding. I’m White!» era stata una parodia del razzista medio, che di solito considera l’AIDS un problema esclusivamente africano, “da neri”.  Biddle dice di aver «preso per buona la sua ingenuità ironica, e centinaia di migliaia di persone avevano fatto lo stesso odiandola istantaneamente, perché odiare uno sconosciuto online è facile ed elettrizzante».

Biddle dice di aver  «preso per buona la sua stupidaggine ironica, e migliaia di persone avevano fatto lo stesso»

In breve, i due sono diventati amici. Mesi dopo, lo scorso ottobre, Biddle è alla sua scrivania e segue la vicenda di Gamergate, un confuso ed eterogeneo movimento online che, perlomeno inizialmente, se la prende con alcune presunte storture del giornalismo videoludico, per poi espandersi a macchia d’olio a tutt’altri temi. Il reporter decide di ironizzare sulla prevalente ispirazione nerd dell’iniziativa:  «Alla fine #GamerGate sta ribadendo ciò che sappiamo essere vero da decenni: i nerd dovrebbero essere costantemente messi in imbarazzo e umiliati con la sottomissione», twitta per prima cosa Biddle, aggiungendo poi un eloquente «Bring Back Bullying». Non pensandoci su, si rende protagonista di una manifesta apologia del cyberbullismo, e per ventiquattr’ore ne paga le conseguenze: assiste a critiche, insulti, minacce, email, telefonate in redazione, addirittura sfide a incontrarsi dal vivo, al punto da definire «intollerabile» la sua vita online di quel giorno. E da venire folgorato da un parallelo che riguarda Justine: «La domanda Come hanno potuto pensare che stessi davvero legittimando il bullismo? nella mia testa era chiara tanto quanto Come hanno potuto pensare che stessi davvero ironizzando sull’AIDS in Africa? lo era stata nella testa di Sacco». Su Internet, come da celebrata storica vignetta del New Yorker, «nessuno sa che sei un cane»: se posti una battuta sull’AIDS in Africa, sei qualcuno che fa ironia sull’AIDS in Africa.

A questo punto, una precisazione: parlando a livello personale, non ho nulla da spartire con chi vede nel web una sorta di male oscuro a cui opporre un “prima” o un altrove fatto di cose vere e realtà più genuine, né culturalmente né tanto meno su un piano pratico: giudico la rete uno strumento – anzi, una rete di strumenti – imprescindibile, utilissimo nello scoprire storie che altrimenti con ogni probabilità non avrei mai approfondito, un non-luogo che mi ha permesso di incrociare il mio cammino con quello di alcune delle persone migliori che conosco. Penso però che talvolta la sua struttura renda necessaria un po’ di accortezza. Prendete “Confessions of a Troll: A short essay about why I’m quitting the Internet”, un post sul forum Giant Bomb in cui mi sono imbattuto scrivendo questo pezzo, e in particolare il passaggio che segue:

Mi ricordo di aver letto di un filosofo che diceva “la più grande sfida che dobbiamo affrontare, da individui, è accorgerci che gli altri sono protagonisti delle loro storie, e non soltanto personaggi secondari delle nostre”. Provo a essere memore di questa massima e a comportarmi di conseguenza, ma trovo quasi impossibile farlo online. Il motivo è che sento ciò che succede su Internet come del tutto distaccato dalla vita reale. Quando mi connetto su una community online è come se fossi un attore che sta impersonando una versione migliore (o peggiore) di me stesso, e di solito penso che gli altri stiano facendo la stessa cosa. […] Qual è l’incentivo a essere onesto quando diventi il biografo di te stesso e tutti ti devono prendere in parola? Questo per me è Internet – soltanto un gruppo di “nessuno” che gioca a fare finta.

Naturalmente Internet – e tutto ciò che rappresenta, un insieme di codici e strumenti a cui forse non si rende giustizia limitandosi a una singola dizione – non è lo scenario fake-apocalittico di cui parla l’ex troll del suddetto thread. Ma è anche qualcosa di simile. Qualche tempo fa mi sono trovato negli stessi panni di Sacco e Biddle, pur in proporzioni difficilmente paragonabili, per un banale errore che ho commesso online – peraltro reso possibile da un’ingenuità di fondo non dissimile da quella mostrata dai due americani. In seguito mi sono incontrato a Milano con la persona che per due giorni era stata per me hater fra gli hater e personaggio quasi intollerabile, un nickname che ho detestato con tutto me stesso per il suo, beh, trollaggio. Ebbene, non mi sembrava di stare bevendo birra con uno che ero giunto a odiare, la sera del nostro rendez-vous. Anzi, chi avevo davanti mi ispirava una simpatia peculiare, come quella che riservi a una persona in cui ti imbatti ma credi, per un déjà-vu, di aver già conosciuto in altre occasioni. Dopo pochi minuti io e il mio hater, come due Sam e Justine di provincia, ci siamo trovati a parlare dei rispettivi lavori, dei nostri interessi, delle reciproche esperienze, di un prossimo aperitivo. Qui la parola va ridata al bel resoconto di Biddle:

Mi hanno chiesto diverse volte se posterei di nuovo il tweet di Sacco, e tuttora non so come rispondere. Riposterei di nuovo quel tweet? Certo. Posterei il tweet sapendo che causerà un disastro personale incredibilmente sproporzionato a Justine Sacco? No. Posterei il tweet sapendo che potrebbe succedere? Qui siamo in un’area rischiosa, e il pensiero corre a dei fantasmi: se potessi incontrare faccia-a-faccia tutte le persone su cui hai postato, quante di QUELLE prenderesti ancora di mira? Navighiamo in acque difficili, qui.

Letta questa considerazione di Biddle, mi sono chiesto – e me lo sto ancora chiedendo – se per essere un troll su Internet si debba necessariamente augurare morti truculente, minacciare e lasciare messaggi orrendamente razzisti, com’è d’uso a molti dei figuri svedesi di cui si occupa Aschberg. Non basta esagerare nel prendersela con un/a tizio/a, anche soltanto per un paio di minuti di passatempo? Non basta “trollare” chi, tra le altre cose, scrive di aver passato il Natale in solitudine? La questione, presa alla larga, non è dickensiana ma di implicazioni sociali: se per far parte del vituperato peggio del web basta rovinare la giornata a qualcuno, attaccando chi è perlomeno in buona fede o liquidando chi la pensa diversamente, allora probabilmente ne abbiamo fatto parte tutti. Di sicuro ne ho fatto parte io.

Mesi fa, chattando con chi ce l’aveva particolarmente con me senza conoscermi al di fuori della rete, ho scoperto che mi si imputavano convinzioni che odio e si dava per scontato fossi vicino ad ambienti da cui mi sento invece lontanissimo. La vita online può essere gratificante quanto quella reale, ma sarà sempre diversa, nella misura in cui dipende da regole, criteri, attitudini diversi. Ventuno anni dopo l’originale, una vignetta sequel del New Yorker potrebbe dire più o meno che “su Internet a nessuno interessa davvero che tu sia un cane”. È l’innovazione, e a volte è anche un dilemma.

Immagine in evidenza Luis Davilla/Getty Images.