Attualità

Torture musicali

Spezzare la volontà di un prigioniero con una canzone per bambini. Storie di certezze (non) infrante

di Anna Momigliano

Sarà per colpa di (o, a seconda di come la vedete, grazie a) Uan e agli altri tele-pupazzi della Prima Repubblica, fatto sta che qui da noi Sesame Street non ha mai raggiunto lo status di icona. Negli Stati Uniti, dove va in onda senza interruzioni dal 1969, Sesame Street non è soltanto un programma per bambini, è il programma per bambini, una istituzione. A Sesame Street è ispirato, per esempio, Avenue Q, il popolare musical generazionale che nel 2003 ha messo in scena la condizione tragicomica dei bamboccioni. Lo show è preso assai sul serio dagli attivisti gay tanto quanto dalla destra omofoba: i pupazzi Bert ed Ernie vivono nella stessa stanza, non starete promuovendo la sodomia? Bert ed Ernie sono una coppia di fatto da decenni, non è arrivato il momento di farli sposare?, eccetera. Su Wikipedia, oltre al lemma dello spettacolo e dei suoi personaggi, esiste una ampia voce dedicata alla “Storia di Sesame Street.”

Qui in Italia va in onda su Rai YoYo verso l’ora di cena, con il titolo “Gioca con Sesamo.” Nell’ultima puntata che mi è capitato di guardare – ho una figlia piccola – due pupazzi pelosi e una loro amica che ricordava Miss Piggy si divertivano a inventare “tanti trenini originali.” La sosia di Miss Piggy diceva “dài, facciamo il trenino della mucca,” e gli altri due rispondevano “ciuf ciuf, muuu muuu.” Lei diceva “adesso facciamo il trenino del piccione,” e gli altri due rispondevano “ciuf ciuf, tuba tuba.” Così per un dieci minuti abbondati.

Mia figlia di due anni si è divertita come una matta. A me quei dieci minuti sono sembrati un’eternità, un piccolo supplizio per le mie orecchie – quel “tuba tuba,” credetemi, era davvero fastidioso – ma tengo a sottolineare il “piccolo.”

Mai avrei pensato che, da qualche parte nel mondo, quelle canzoncine sono veramente utilizzate per torturare i prigionieri. Cosa che invece, ho scoperto, accadeva (o accade tutt’ora?, non saprei) a Guantanamo. Dove per piegare la volontà dei nemici pare fossero sparati a tutto volume non soltanto pezzi heavy metal ma anche brani musicali tratti da Sesame Street.

La notizia era stata diffusa nel dicembre del 2008 dall’Associated Press. I compositori di “Gioca con Sesamo” non l’avevano presa molto bene. Uno di loro, Christopher Cerf, ha dichiarato all’AP di “non volere essere parte di una cosa del genere.” Un altro, Bob Singleton, ha commentato: “È grottesco. Una canzone pensata per fare sentire dei bambini piccoli amati e al sicuro può essere utilizzata per minacciare l’equilibrio mentale di un adulto?”

Christopher Cerf ne ha fatto un caso personale. Ha cominciato a chiedersi come fosse possibile che le sue canzoni fossero utilizzate per torturare un essere umano, ed è finito a domandarsi come sia possibile che la musica in genere sia trasformata in un’arma potente al punto da spezzare la volontà di un individuo. Ha incontrato un ex prigioniero di Guantanamo, un soldato in congedo, studiosi di storia militare, psicologi, una band di metallari e, non ultimo, uno “specialista in tecniche di interrogatorio”: il risultato è “Songs of War,” un documentario breve recentemente trasmesso da Al Jazeera English.

La parte più interessante è l’incontro tra Cerf e Mike Ritz, un ex interrogatore di professione per le Forze Armate statunitensi che dalla fine degli anni Novanta gestisce una società privata. Come prima cosa Ritz mette in chiaro che la musica non serve tanto ad arrecare dolore ai prigionieri, quanto a farli sentire soli. “La chiave del gioco sta tutta nella dipendenza tra interrogatore e interrogato. E più il prigioniero si sente isolato, più sarà dipendente.”

Il suono – tutti i tipi di suono – sono una forma di isolamento, spiega Ritz. Quando un suono è sufficientemente forte, “non sei più grado di avere altre esperienze sensoriali, non puoi nemmeno sentire i tuoi pensieri.” L’idea, in altre parole, è tenere il prigioniero “chiuso nel suo piccolo mondo, alimentando la sua paura dell’ignoto.” Un elemento cardine della filosofia interrogatoria di Ritz. Che già tempi di Abu Ghraib aveva spiegato di opporsi alla violenza sui detenuti iracheni anche su una base utilitarista: la fisicità, per quanto dolorosa, rompe la tensione, è qualcosa di tangibile, e dunque allontana il timore dell’ignoto.

“Songs of War” è fatto bene e merita di essere visto (è liberamente fruibile online). Ma, come spesso accade con i documentari di Al Jazeera, ha due pecche. Per cominciare, c’è troppa carne al fuoco. In poco più di venti minuti, si parla un po’ di tutto: gli interrogatori a Guantanamo; l’utilizzo della musica sul campo di battaglia, dalle fanfare napoleoniche alla guerra psicologica in Vietnam; l’ascolto di alcune band heavy metal, piuttosto che altre, da parte dei soldati americani nei carri armati (a proposito, lo sapevate che “Let the Bodies hit the Floor” dei Drowning Pool è “l’inno ufficioso dell’esercito americano in Iraq”? i Drowning Pool mica lo sapevano). Infine, il warfare del futuro, quando, sostiene qualcuno, le armi da fuoco saranno sostituite da potentissimi e molesti sound system…

L’altro problema è che ci sono buoni e cattivi. Una presa di posizione sulla rappresentazione della realtà che forse potrebbe meriterebbe di essere criticata di per sé, ma che risulta particolarmente indigesta quando la linea di demarcazione tra vittime e carnefici è difficile da tracciare. Un esempio: tra gli intervistati c’è Moazzam Begg, un cittadino britannico che era stato catturato nel 2001 mentre si trovava in Pakistan e che, dopo un anno in una prigione Usa in Afghanistan e due anni di Guantanamo, è stato liberato nel 2005 senza che alcuna accusa formale gli fosse mai stata rivolta.

Nel documentario Begg si presenta come un tipo affabile, dal tono pacato e dal gradevole accento britannico. Indossa una felpa casual, porta gli occhiali e descrive la sua esperienza di detenuto torturato in modo articolato. Si vede che è a suo agio davanti alla telecamera, e quando si rivolge direttamente al suo interlocutore sa dosare il giusto equilibro tra distanza e ricerca di empatia. Ti ricorda quel professore giovane che hai avuto all’università, un po’ saccente ma tutto sommato alla mano: è un uomo che è stato sottoposto a tre anni di carcere duro, che ha subito torture e umiliazioni senza avere mai commesso alcun reato.

È una vittima perfetta per lo schermo. Chi non sapeva già da prima chi è Begg, non ha alcuna idea delle circostanze che hanno portato alla sua cattura, mentre si trovava in un campo di addestramento a Derunta, uno dei luoghi dove un tempo gli americani credevano che si fosse rifugiato Osama Bin Laden. Trovarsi in un campo di addestramento in Pakistan non è di per sé un reato, se Begg è stato liberato senza alcuna accusa formale un buon motivo ci sarà, e le circostanze del suo arresto non cambiano il fatto che si sia fatto tre anni di carcere ingiustamente. Ma raccontare la storia avrebbe fatto di lui una vittima un po’ meno telegenica.

E così un documentario che indaga un tema potenzialmente tra i più inquietanti – ossia la trasformazione di un’esperienza pensata per coccolare la psiche umana nella sua fase più delicata, in uno strumento per demolirla – si rivela un contenuto che sembra confenzionato con l’intento di confortare lo spettatore, confermando i suoi pregiudizi.

A un certo punto uno degli esperti intervistati da Cerf spiega che una delle tecniche più efficaci per mettere a disagio il prigioniero consiste nel diffondere due brani musicali in contemporanea. Più sono diversi tra loro, meglio è, perché l’obbiettivo è creare un senso di dissonanza nel detenuto.

Attribuire un significato coerente alla nostra esistenza e al mondo esterno è indispensabile per mantenere il nostro equilibrio mentali – e ascoltare i Metallica in sovrapposizione a Johnny Cash (combinazione realmente utilizzata a Guantanamo) ci impedisce di farlo. Ricordate, è la paura dell’ignoto, non l’anticipazione del dolore, a fare crollare il nemico.  Le certezze sono una necessità, deprivare l’uomo dei suoi punti di riferimento è una forma di tortura e Cerf si guarda bene dal farlo. “Non penso che esista un lato oscuro della musica, penso che ogni canzone possa essere utilizzata per fini oscuri,” pensa ad alta voce a favore della telecamera. “Credo che qualsiasi brano musicale, trasmesso a ripetizione per un tempo sufficientemente lungo e a un volume sufficientemente alto, farebbe impazzire chiunque.”