Attualità

The Bang-Bang Club

di Davide Coppo

Strano, e forse scorretto, utilizzare per descrivere la guerra l’aggettivo “bello”. Potremmo usare “affascinante”, ma suona comunque come una concessione al politically correct. Meglio dire che ci sono degli aspetti, della guerra, che potrebbero rientrare nella definizione di bellezza. Certe foto, ad esempio. Il fotogiornalismo, il reportage dalle prime linee, o ancora dalle ultime, a testimoniare quello che è rimasto della battaglia appena conclusa. D’altronde è per questo che viene assegnato un premio Pulitzer. Non la semplice testimonianza di un evento, bensì l’eccellente testimonianza di un evento. È quello che hanno fatto per anni, finché hanno potuto, quattro giornalisti sudafricani. Sono Kevin Carter, Greg Marinovich, Ken Oosterbroek e Joao Silva, altrimenti detti The Bang-Bang Club.

Il nome viene coniato dal giornalista di un magazine sudafricano, Living. Si tratta di quattro giovani fotoreporter da sempre impegnati in zone caldissime della guerra civile allora in corso nel paese africano. Era il periodo tra il 1990 e il 1994, quello tra la liberazione di Nelson Mandela e la sua elezione a presidente, uno dei più sanguinosi periodi della storia del continente africano tutto. In particolare gli scontri più duri avvennero tra l’ANC (African Narional Congress), il partito di Mandela, e l’Inkatha Freedom Party, partito a maggioranza Zulu. Solo nel 1990 morirono in 3.000. Da giugno a settembre di quell’anno quasi ottocento furono uccisi, sgozzati, dai raid dell’IFP. Il Bang-Bang Club divenne famoso scattando le più importanti foto che hanno documentato una tragedia che altrimenti sarebbe passata forse non inosservata, ma di certo meno considerata. Lo fece ballando pericolosamente sul confine tra etica e giornalismo, come testimoniano le innumerevoli polemiche conseguenti ai più famosi scatti e la tragica fine che si abbatté sul più celebre dei membri, Kevin Carter. Tra nove giorni ricorrerà l’anniversario del suo suicidio, avvenuto a solo trentaquattro anni. Problemi di soldi, di responsabilità e, si dice, di fantasmi. La foto più famosa di Carter, quella che gli fece vincere un premio Pulitzer appena due mesi prima di togliersi la vita, rappresenta una bambina di pochissimi anni intenta a trascinarsi verso un “feeding center”. Un mucchietto d’ossa a gattoni, con la testa china, e un avvoltoio dietro di lei. Carter avrebbe voluto aspettare che l’avvoltoio spiegasse le ali, per rendere lo scatto più drammatico, ma alla fine si accontentò. La foto fu scattata in Sudan, nel marzo 1993. Quattordici mesi più tardi Carter saliva sulla pedana della Columbia University per ritirare il più importante riconoscimento giornalistico. Sedici mesi dopo fu ritrovato nel suo pick-up, soffocato dai vapori di scarico della sua stessa auto. La lettera che lasciò diceva, in una parte: “I am haunted by the vivid memories of killing & corpses & anger & pain (…) of starving or wounded children, of trigger-happy madmen, often police, and killer executioners”, e si concludeva con “I have gone to join Ken if I am that lucky”. Carter non seppe mai se la bambina arrivò in salvo al centro di distribuzione del cibo. Si limitò a scacciare l’avvoltoio. Ricevette una pioggia di critiche, da colleghi e non, per il suo comportamento. Venne definito “un altro avvoltoio sulla scena”.

Il Ken citato nel biglietto d’addio di Kevin Carter era un altro membro del club, Ken Oosterbroek, rimasto ucciso a Thokoza, nei pressi di Johannesburg, da un proiettile vagante, mentre lavorava insieme a Greg Marinovich, il 18 aprile 1994. Marinovich vinse, come Carter, un Pulitzer, ma tre anni prima, nel 1991. Lo scatto che gli fece vincere il premio rappresenta un uomo, Lindsaye Tshabalala, avvolto dalle fiamme. Di fronte a lui un altro uomo, membro dell’ANC, gli conficca un machete nel cranio. In basso a destra, un bambino scappa. In Sud Africa, durante la guerra pre-elezioni del 1994, il necklacing era una pratica diffusa. Consisteva nel ficcare un copertone al collo o attorno al petto e braccia di un oppositore e dargli fuoco. Lindsaye Tshabalala era sospettato di essere un simpatizzante dell’IFC.

La storia del Bang-Bang Club finisce quindi già nel 1994, con la morte di metà dei suoi membri, accidentale nel caso di Oosterbroek, auto indotta nel caso di Carter. Nelle due settimane intercorse tra la scomparsa di Oosterbroek e quella di Carter, Nelson Mandela diventava il primo presidente di colore del Sud Africa libero dall’Apartheid, scegliendo come vice presidente Frederik de Klerk, lo sconfitto alle elezioni. Entrambi ricevettero il premio Nobel per la pace nel 1993.
La “maledizione” del Bang-Bang Club non finisce con le morti, nel 1994, dei due reporter. Joao Silva fu investito in pieno dall’esplosione di una mina antiuomo il 23 ottobre 2010, in Afghanistan. Continuò a fotografare gli istanti immediatamente successivi all’esplosione, mentre veniva soccorso per essere portato al più presto sotto i ferri. Gli vennero amputate entrambe le gambe. Greg Marinovich è l’unico fotografo a essere uscito quasi indenne, e ha deciso di ritirarsi, con la moglie, a vita privata. Vent’anni dopo quello scatto, l’immagine dell’uomo in fiamme e del suo assassino è ancora impressa, come in pellicola, nella sua testa: «It was without doubt the worst day of my life, and the trauma remains with me, despite some twenty years and a lot of coming to terms with the incident, my role and what it means to be involved in murder». Marinovich ha dichiarato di essersi sentito «one of the circle of killer, shooting with wide-angle lens». Nel 2004 disse al Guardian di essere riuscito a rintracciare l’omicida, e di volerlo incontrare. «But first I’ve got to feel ready», aggiunse.