Stili di vita | Estate

Il fascino dello stabilimento balneare

Lettini unti, caffè shakerati, settimane enigmistiche, giri in canoa e tanti Maxibon. Un luogo miracoloso dove tutto resta uguale.

di Francesco Longo

Questo articolo fa parte di “Studio estate”, una serie di pezzi dedicati ai simboli e ai luoghi dell’estate. Potete leggerli tutti qui.

Come tutti i luoghi paradisiaci, lo stabilimento balneare promette la sospensione del tempo. Nulla potrà turbare la pace, ogni istante si ripeterà identico a se stesso nelle estati successive: quest’illusione sprigiona l’incanto assoluto. Le attività sportive intramontabili, i chioschi di legno e paglia, le vecchie biciclette, e soprattutto i riti sacri della giornata. Da quando, duemila anni fa, i corpi si godevano il ristoro nelle terme – gli stabilimenti sono l’ultima incarnazione degli impianti termali – il riposo fisico ha bisogno di luoghi in grado di accudire anche lo spirito. Da allora a oggi non è cambiato poi molto. Gli stabilimenti come li conosciamo oggi sono annunciati dalle strutture delle città balneari settecentesche, con pudichi accessi per immergersi direttamente in mare, ma esplodono nell’Ottocento, nell’epoca in cui le grandi città organizzano il tempo libero dei cittadini e in la ricerca del benessere e dello svago dà forma a luoghi deputati all’intrattenimento urbano: ruote panoramiche e luna park sono simboli delle prime metropoli.

Il fascino malinconico del soggiorno al mare è alimentato da subito da molti scrittori: «Dumas, Flaubert, Proust sono solo alcuni tra i tantissimi che hanno arricchito la storia della balneazione dell’Ottocento francese», scriveva Laura Inzerillo. Proust amava in particolare soggiornare al Grand Hôtel di Carboug: «Fra le camere di cui evocavo più spesso l’immagine nelle mie notti d’insonnia, nessuna assomigliava meno alle camere di Combray, dove aleggiava un’atmosfera granulosa, densa di polline, commestibile e devota, di quelle del Grand-Hôtel de la Plage a Balbec, i cui muri verniciati a smalto contenevano, come le pareti levigate d’una piscina dove l’acqua azzurreggia, un’aria pura, celeste e salina».

Scalinate, rotonde affacciate sull’acqua, grandi alberghi di lusso, casinò, caffè ristoranti, gallerie vetrate, cottage, promenade. La villeggiatura in riva al mare è un sistema di intrattenimento che si fa sempre più raffinato e pronto ad assumere la forma attuale: il lido. In epoche e con stili diversi, gli stabilimenti vengono immortalati in milioni di cartoline che disegnano per sempre l’immaginario delle coste planetarie. Se il tempo dello stabilimento è un tempo che non scorre, in Italia le lancette sembrano essersi fermate una volta per tutte agli anni Sessanta, durante il boom, quando la villeggiatura ha avuto un impatto urbanistico e sociale irreversibile e si è fatta mito. Foderati da file di bottiglie rosse di Aperol, ancora oggi i chioschi sono il cuore dello stabilimento – caffè shakerati, quotidiani sportivi, tanti Maxibon –, rifugi per bambini che alle dieci di mattina sgranocchiano patatine fritte, rifugi per adolescenti inebriati dall’aspetto ambiguo dell’estate più che dalle nuotate, rifugi per vecchi esasperati dalla gioia senza ombre della vacanze.

Nessuno scrittore italiano ha saputo rendere meglio di Alberto Arbasino tic e abitudini della vita estiva. Già nel suo esordio, Piccole vacanze (Adelphi), ha raccontato l’Italia come un’interminabile distesa di pinete e arenili, nottate per ballare il twist, per filosofeggiare e per tradirsi, tra Forte dei Marmi e Viareggio, tra Capri e La Spezia. Arbasino ha celebrato ogni pino, ogni scoglio, ogni ragazza della Versilia, appuntando ciglia, capelli, labbra, gambe, accenti, chiarendo che l’estate è soprattutto il momento della seduzione e del corteggiamento infinito: «Da quanto mi stava guardando quella biondina? Tante ne ho guardate io in questi giorni sulla spiaggia, con molte ci sarebbe voluto del tempo ma con risultato finale sicuro; questa invece me lo fa capire subito, che ci sta. Ed è la più bella della spiaggia». I giri nelle auto sportive, gli aperitivi sotto i platini – e poi via in bicicletta –, e gli sguardi raccontati in Piccole vacanze non hanno fatto altro che preparare la strada al romanzo Fratelli d’Italia, monumento a un paese di vespe nei giardini e pullover per proteggersi dall’umidità. Un’Italia con litorali frequentati soprattutto da una mondanità coltissima e elitaria: «Lei fa portare altro champagne, nuove tartine fresche, pâté e caviale anche per i più lontani. A piedi nudi, il cameriere raggiunge col vassoio gli ombrelloni in riva all’acqua, posa secchielli e piatti sulla sabbia bagnata».

Nell’estate del 2018 gli stabilimenti sono ancora luoghi miracolosi. Non è un caso che per omaggiarli  le radio accese mandino tutto il giorno l’ultimo tormentone di Thegiornalisti: «Quelle code infinite di macchine / Che si vedono al telegiornale / Mi mettono di buon umore / Come gli stabilimenti balneari». Dopo ore di secchielli spinti dalle onde sulla battigia, di settimane enigmistiche e giri in canoa, di lettini uniti per giocare a carte, l’ora magica dello stabilimento è il tramonto. Mentre i ragazzi dello staff sgrullano la sabbia dai lettini e chiudono con un solo gesto gli ombrelloni – il sipario della giornata che muore – ecco il momento delle bottiglie di Corona con sale e limone. La luce languida del crepuscolo e le ombre lunghe fissano per sempre questi attimi nella memoria dei villeggianti. Quando scende la notte, la famigerata promiscuità degli antichi impianti termali mostra che, nonostante l’ordine granitico di sdraio e lettini, il vizio non è stato del tutto estirpato. Scrosci di un temporale: come tutti gli incantesimi, anche il lido acquista forza proprio perché capace di svanire all’improvviso. La promessa però è nell’aria, l’estate tornerà, identica alla precedente.