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Sorridi, Brian

Brian Wilson, il feticismo e l'eterna lotta per dare senso a "Smile", l'album perduto dei Beach Boys

di Pietro Minto

Non sarebbe bellissimo poter vedere il backstage della Gioconda? Guardare Leonardo parlare con i suoi assistenti, ammirare le prove, gli errori – se ce ne son stati – osservare la genesi di un capolavoro. È un desiderio comune e incontrollabile, quello di sapere come è stato fatto un’opera d’arte. Poter chiedere all’autore come gli è venuto in mente di agire proprio in quel modo, indagarne il genio. È una cosa bellissima, impagabile: per ovvi motivi non è stato possibile farlo con i grandi del passato – di cui al massimo conserviamo qualche lettera, nulla di più; e per questo, forse, ci stiamo sfogando ora che la tecnologia ci permette di salvare il work in progress di un capolavoro. Di averne tracce audio e video, di intervistare amici e colleghi. Di fotografare. Perché poter ripercorrere la storia di un’opera d’arte è un impulso irrefrenabile ed è tutto sommato utile, oltreché interessante. Però forse stiamo esagerando.

Chi scrive, per esempio, ha divorato The Beatles Anthology, una compilation-mostro da 3 CD + libro in cui la carriera dei fab four viene sviscerata attraverso take inedite dei loro brani più famosi, interviste e dietro le quinte. Un set che, per esempio, permette di ascoltare la prima, pesantissima versione di Helter Skelter – un blues inesorabile di 27 minuti – o sentire John ridacchiare tra una prova e l’altra, palesemente fumato come un canguro. Si può anche ascoltare come Strawberry Fields Forever si sia trasformata in pochi mesi da ballata acustica e malinconia a opera psichedelica fatta di nastri trattati e fiati.
Eppure tutto ciò, come ogni cosa forzata, dovrebbe avere un limite. La mania del dietro le quinte può rovinare il capolavoro di cui sopra, scoprirne il lato nascosto e quindi magico. Resistere è difficile, la tentazione è enorme ma la foga della take one e della demo va presa per quel che è: feticismo.

Ne sa qualcosa Brian Wilson, leader e mente dei Beach Boys, che ha speso gli ultimi quarant’anni della sua vita inseguendo una nuvoletta rosa chiamata Smile, il disco-evento che sarebbe dovuto uscire nel 1967, come risposta a Revolver e Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band dei Beatles, e avrebbe dovuto cambiare il mondo. Rivoluzionare la musica pop. Distruggere la concorrenza. Com’è noto, per Wilson il disco fu l’equivalente del Vietnam per gli USA. Lo distrusse dal punto di vista psicologico, ne minò il fisico e – quel che è peggio – l’album uscì poco dopo Sgt. Pepper’s, l’opera dei Beatles che faceva punto e a capo con tutto quello che c’era stato prima (compreso il suo Pet Sounds, album che tanto aveva fatto sentire piccolo Paul McCartney).

Brian Wilson non la prese bene: imprigionato in un vortice di LSD, frustrazione e depressione, si ritirò, rimase a casa per anni, a letto, solo e depresso. Ogni tanto, come lo Stregatto di Lewis Carrol, nella sua mente facevano capolino le canzoni di Smile, il suo Paese delle meraviglie.

La storia dell’album è tortuosa e passata alla storia: ideato come concept album, Smile non fu mai portato a termine. Eppure nella mente del leader della band il nuovo lavoro sembrava così chiaro e a portata di mano. Poi però Wilson cominciò con le stranezze: a un certo punto pretese che tutta la band e i tecnici indossassero dei cappelli da pompieri; poi si convinse che una delle sue canzoni (Mrs. O’Leary’s Fire) stesse provocando incendi in tutta Los Angeles e ne distrusse ogni registrazione; senza contare che la sua idea originale era un concept album sui quattro elementi naturali (acqua, terra, aria e fuoco); e, ovviamente, continuava con i trip di LSD iniziati nel 1965 («un’esperienza molta religiosa»).

Smile si arenò: Wilson cominciò a correggerlo, a rivederlo, a richiedere altre prove, altre sovraincisioni. Fu la casa discografica a togliergli il cappello da pompiere dalla testa e costringere a farlo uscire un album. (All’epoca il gruppo, per contratto, doveva sfornare due LP all’anno). Fu la burocrazia, quindi, a portare alla luce la prima versione dell’album, assemblata in fretta in furia nell’arco di un mese. Il risultato, Smiley Smile, fu quanto di più distante dal Sgt. Pepper-killer di cui Wilson andava parlando da mesi. Era il 18 settembre 1967 quando l’album uscì negli States. La summer of love stava terminando e già comparivano le prime foglie morte. Brian Wilson affondò sotto i colpi della droga, la depressione e le macerie della sua carriera fino al 1975. Eppure la storia di Smile era appena cominciata.

Il fantasma dell’opera ha continuato ad albergare la fragile mente del nostro per decenni. Una condanna. Nel 2003 Wilson, ormai anziano, cominciò a suonare qualche brano di quel quasi-album nel suo studio, basandosi soprattutto sulla memoria, pare (particolare bizzarro visto i ricordi vacui che deve aver del biennio 1966-67). Ed ecco ritornare ancor più forte il desiderio di rimettere ordine a quei brani e ricominciare da capo l’«inno a Dio» iniziato quarant’anni prima. Il “nuovo” Smile uscì nel 2004 con una tracklist in parte rivista rispetto l’originale. Seguì una tourneé. Un successo.

Che però non è bastato. Ed ecco quindi – siamo al novembre dell’anno corrente – l’uscita di The Smile Sessions Box Set, ovvero quello che dovrebbe essere il capitolo finale di questa lunga e torrida storia. Si tratta di una sontuosa antalogia in cui l’opera viene dissezionata e ricomposta sulla base dell’ormai antica idea di Wilson, e che darebbe giustizia – secondo quanto sostengono i critici – alle canzoni che Smiley Smile, quel cattivone, ha consegnato al mondo incompleti, confusi. Un folle patchwork che è stato sistemato, sperando di avvicinarsi il più possibile a Quello Che Doveva Essere. (Molti fan si sono ripresi mentre scartavano il pacchetto deluxe e hanno postato il tutto su Youtube: a proposito di feticismo.)

Ed è proprio questo il problema: la bellezza di Smile (parliamo della versione del 1967) è proprio la sua incompletezza di fondo. Sono quei tagli di nastro improvvisi e sbagliati che separano e vivisezionano pezzi che di pop non hanno più nulla ma anzi sembrano uscire dal laboratorio di un musicista d’avanguardia con un passato surf. Heroes and Villains, per esempio, ha dignità solo nella versione degli Anni ’60: incerta, frutto di circa 30 take, assemblata un po’ a caso, con i volumi sballati. D’altronde l’idea di Wilson era quella di portare l’approccio di Good Vibrations, hit del 1966, sulla dimensione LP: ovvero, creare un lungo e unico flusso di pezzi e pezzettini, confusione e armonia.
Quale fosse l’idea che il povero Brian avesse in mente non lo potremmo mai sapere (dubitiamo che lo abbia mai saputo con certezza egli stesso) ma una cosa è certa: Smile è e rimarra sempre quell’opera abortita in fretta e furia dopo un anno di lavoro in studio di registrazione (un’eternità per quei tempi: i Beatles ci misero sei mesi a fare Sgt. Pepper’s e la stampa li considerava finiti, sepolti vivi ad Abbey Road. E invece).

Figlio di una mente non in pace con se stessa e assillata dal bisogno di fare il Capolavoro, Smile è fatto di confusione. È una marmellata di armonia stupende, limpide e inquietanti allo stesso tempo (You Are my Sunshine, Child Father to the Man, Surf’s Up), e se non si fa caso ai palesi copia-e-incolla con cui i vari pezzi delle canzoni sono stati appiccicati, lo si può considerare un’opera meravigliosa.

Tentare di riparare Smile vuol dire fargli del male, toglierne la magia, spaccare il giocattolino. Perché più che un album, Smile è un casino totale. E non poteva essere altrimenti: la colonna sonora di un uomo incastrato da un’idea irrealizzabile, un ragazzo geniale che a distanza di quarant’anni deve ancora levarsi dalla testa quel dannato cappello da pompiere.