Attualità

Sober Coach

Cosa fanno i vip quando escono dal rehab? Assumono qualcuno che sappia accudirli e tenerli lontani da vizi, alcol e droghe.

di Violetta Bellocchio

Patty Powers si ricorda di tenere bassa la voce quando parla in pubblico. Ha cinquant’anni, gli occhi grandi. Porta una maglietta dei Ramones sopra un paio di jeans stretti, e in mano ha un bicchierone di Starbucks – sembra la moglie di un batterista, o una manager comprensiva, più che una terapeuta specializzata.

Si era trasferita a New York dal Canada nel 1978, era andata quasi subito ad abitare al Chelsea Hotel. Era una truccatrice e una punk. La vigilia di Natale del 1980 ha avuto una crisi d’astinenza da eroina sulle scale mobili del grande magazzino Macy’s. Andava su e giù, in pigiama, senza ricordare di preciso come fosse arrivata lì. Il classico momento di rottura, nelle storie convenzionali: il momento in cui un personaggio dice, Come ho fatto a cadere tanto in basso? Devo cambiare. Oh mio Dio, devo cambiare. La sua fine è arrivata solo dieci anni dopo. Prima è stata la responsabile delle nuove mostre all’Area, il club più importante in quella che allora cominciava a chiamarsi TriBeCa. Poi è andata in California, viveva per strada, in una stanza sopra un bar. Quando ha finito di essere una tossicodipendente, è diventata una sober companion. E poi una sober coach vera e propria. Lavora molto, moltissimo.

Un sober coach, “allenatore di sobrietà”, è una figura professionale nata negli anni Novanta, ma esplosa in termini di popolarità e diffusione nel passato più recente. Sulla carta, offre un aiuto concreto a chi vuole interrompere una cattiva abitudine; in concreto, è un incrocio tra lo psicoterapeuta, la segretaria e il personal trainer. Un sober companion, invece, è un semplice accompagnatore, un nuovo amico che sa come tenere a bada i terrori notturni. A volte la linea tra coach e companion si chiarisce solo a conti fatti: gli stessi professionisti tendono a offrire entrambi i servizi, valutando l’urgenza della richiesta.

Quello che offrono, di base, è una sola garanzia: loro ci sono passati.

Quello che hanno in comune è il livello di intimità.

Per definizione, un terapeuta è tuo solo durante una seduta; si rende disponibile a intervalli precisi, razionati nel tempo e nello spazio. Non puoi chiamarlo per chiedergli se ti stanno meglio gli stivali rossi o quelli con la zip sul lato. (E se lui ti risponde, è segno che le barriere sono un problema per lui prima che per te.) Un coach invece ti telefona più volte al giorno «solo per sapere come stai»; ti spiega quello che devi mangiare, ti suggerisce il tipo di esercizio fisico più adatto allo stato in cui ti trovi. Ti fa fare meditazione, ti presenta un agopunturista. Molti, come Patty, insistono sull’importanza di un generale «cambiamento nello stile di vita», e non sulla ripetizione meccanica dei dodicipassi. (Non esiste un modo sbagliato per smettere; affronta un giorno alla volta.) Un companion, in più, ti sorveglia 24 ore al giorno. Ti segue dovunque, pronto a toglierti o strapparti di mano quello che non puoi toccare. È il tuo tappeto rosso e il tuo cordone di sicurezza.

In molti casi sono le strutture di recupero private a suggerire coach e companion, pescando da un elenco di contatti fidati, per un “reinserimento graduale nella società”. Una spesa da aggiungere alla cifra – quasi mai di pubblico dominio – che quelle strutture chiedono per il soggiorno mensile. (Tra le poche confermate: trenta giorni di ricovero a Promises, Malibu, fanno 40 mila dollari; la vicina Wonderland arriva a 50 mila. E non sono le più care.) Alcuni centri indipendenti funzionano su basi simili all’agenzia matrimoniale: si rivolgono a loro sia potenziali clienti sia potenziali accompagnatori, e un incaricato cerca di combinare l’incontro perfetto.

Basta un giretto su Google, a metà pomeriggio di un giorno di Ottobre, per accorgersi che l’offerta sopravanza la richiesta. E le domande sono sempre quelle. Come faccio a diventare un sober companion? Ci vuole un diploma, o basta il certificato di frequenza? E soprattutto, pagano bene? Pagano benissimo. Un companion, se ha buone referenze, prende dai settecento ai mille dollari al giorno. Un coach parte dai mille al giorno, ma può arrivare molto più in alto. Questo senza contare le spese (tutte extra), i vantaggi collaterali. Un cliente può farti trasferire a casa sua, sistemarti nella camera degli ospiti o nella dépendance con piscina per tutto il tempo che serve. Devi solo attaccare il cartello coacho companion alla porta; non c’è un’istituzione che punisca gli incompetenti o i pericolosi. «Il problema», secondo Patty Powers, «è che in giro ci sono persone molto brave a vendersi, a imitare il gergo della terapia, ma non sanno come funziona davvero il recupero, perché non ci sono mai passate in prima persona…». La soluzione: «incontrare più candidati prima di prendere una decisione». Va detto, qualche società un filtro lo mette: Sober Champion, basata a Londra, chiede subito agli aspiranti companion un indirizzo di residenza e una copia della patente di guida, e vuole farsi un’idea del loro percorso professionale. Anche se, scrivono, «non dovete spiegarci perché siete stati senza lavoro per certi periodi – è successo anche a noi».

Secondo qualcuno, assumere un companion sconfina nell’appuntamento pagato, magari non nella pratica, ma nelle intenzioni che corrono sotto pelle a quella pratica. Un rapporto simile si basa su una stretta di mano segreta; un’intesa, un contatto. Una forma di innamoramento per procura. Non è un caso che qui non si parli mai di “pazienti”, ma sempre di “clienti”. E il costo del servizio non aiuta a togliergli l’aura del privilegio per pochi. Atleti come Miguel Cabrera dei Detroit Tigers, il cui companion, Raul Gonzales, ha anche lui giocato a baseball da professionista; popstar come Britney Spears, il cui primo companion era stato addirittura citato in giudizio dal marito di lei durante la separazione. Uomini e donne baciati dal privilegio di una vita calda. E se un solo amico sobrio non basta, scatta l’interosober entourage, pagato dai tutori legali o dai manager per sostituire in blocco le cattive frequentazioni. (Il termine tecnico sarebbe enabler, facilitatore: colui che ha interesse a mantenerti debole, perché trae troppi vantaggi personali, emotivi e materiali, da quello stato di cose: per gli addict poveri è l’amico che asseconda le loro peggiori paranoie; per gli addict ricchi è quello che entra nei loro stessi locali, consuma le sostanze che loro pagano, distribuisce pillole del giorno dopo alle loro ultime ragazze. La ragione per cui Charlie Sheen non è riuscito a restare pulito dopo il 2008.)

Nonostante la visibilità dei clienti, un sober entourage deve filare via inosservato: alla Spears era attribuita la costante sorveglianza da parte di un amico normale anche nel 2011, quando il suo abuso di sostanze era, in teoria, acqua passata, ma nessuna identificazione è stata possibile al 100% sulla base delle foto scattate alla cantante in contesti pubblici. L’anonimato fa comodo a entrambe le parti in causa, qui. Alcuni companion dicono di essere stati presentati dai clienti come «ex compagni di università», «guardie del corpo». Alcuni però non si nascondono. Devono la loro notorietà ai passaggi televisivi, oppure fanno fortuna online; Patty Powers ha un blog – Sober Coach NYC – dove mostra il suo viso, oltre a un profilo su Twitter che funziona come un feed di notizie sull’argomento “dipendenza e recupero”. Un altro companion professionista, Joe Schrank, è tra i co-fondatori di The Fix, un portale aggiornato quotidianamente con testimonianze dirette, interviste alle celebrità, ultime novità nei trattamenti: Joe conduce sessioni collettive via Skype, risponde alle domande con implacabile cortesia. Poi c’è Lori Cerasoli, alcolista californiana, che ha lavorato – in tempi e con successi diversi – accanto a Drew Barrymore, a Lindsay Lohan, e all’ex attrice bambina Mary-Kate Olsen, anoressica; nell’ultimo caso Cerasoli era definita una eating companion. Come dire, la matrice dell’avere un problemabastava a garantire un sufficiente livello di devozione. So cosa si prova. Più o meno. E se la regola d’oro di una recessione prevede che si tengano sempre da parte un po’ di spiccioli per i vizi, dalle sigarette alle anfetamine, perché va bene i sacrifici, ma non si può mica rinunciare a tutto, disintossicarsi a casa propria è un vizio sostenibile. Perché chiuderti a chiave in una stanza non familiare, quando potresti avere a portata di mano i tuoi CD e i tuoi vestiti più comodi. I tuoi amici.

Patty Powers ha cominciato così. Era fresca di recupero dopo diversi tentativi falliti: la sua prima storia, Patty la Drogata, era finita in un posto chiamato Bowling Green, in Louisiana, ma lei aveva rischiato di non arrivarci mai, perché l’estraneo con cui si era messa a chiacchierare al bar dell’aeroporto aveva la borsa imbottita di eroina ed è arrivata la SWAT e ci è mancato un attimo che arrestassero pure lei – e questa è una storia per un altro giorno – comunque fosse, un vecchio amico musicista si era appena disintossicato con apparente successo, ma temeva di non riuscire a superare una tournée senza cadere in tentazione. Allora ha pagato Patty per stare con lui. Senza contrattare, le ha dato la stessa cifra che lei avrebbe guadagnato in tre mesi da un lavoro noioso che non c’entrava nulla. È difficile dire di no, se qualcuno ti offre dei soldi per fare una cosa che già sai fare, o che puoi imparare alla cieca, strada facendo. E questo ci porta a Intervention.

Intervention è un docu-reality show di cui non poteva esistere una seconda stagione, infatti è arrivato alla tredicesima. Ogni puntata segue la stessa traccia: si presenta l’addict di turno, si dice che lui o lei ha accettato di farsi seguire dalle telecamere anche quando va in bagno / batte per strada / scalda il crack sul fornelletto da campo perché lui o lei «crede di stare partecipando a un documentario sulla dipendenza»; 25/30 minuti di orrore più tardi, lui o lei viene fatto accomodare in una stanza dove lo aspettano amici, parenti, tutti. E comincia la danza. Eccoci qui riuniti, ti vogliamo bene, ma devi andare a curarti. Ho scritto qualche parola, ora te la leggo. Alla fine, non ci piove, la vittima si lascia portare in clinica. E comincia una vita tutta nuova. (Forse.) Resta il mistero di come facciano i protagonisti a non sapere cosa li attende dietro quella porta, dato il successo enorme del programma e la pervasività dei riferimenti culturali da esso generati. (Sul serio: ci sono parodie di Intervention ovunque, da South Park a YouTube, e quasi tutte hanno la cadenza perfetta del rituale). I produttori attribuiscono questo stato di cose al fatto che «i tossicodipendenti non sono troppo aggiornati in materia di cultura pop». BUGIA. Patty Powers dice che l’oscurità di certe storie la attirava a sé fin da quando lei aveva tredici anni; lei leggeva Go Ask Alice, e voleva prendere l’LSD, e poi fare la stessa finaccia dell’anonima diarista. (E Greg Dulli degli Afghan Whigs, che da ragazzino leggeva le interviste alle rockstar e pensava «non vedo l’ora di cominciare a drogarmi».) Tornando a noi: qualsiasi intervention, in TV o a casa vostra, ha bisogno di un professionista – un interventionist, appunto; quello/a che raduna gli ospiti, gestisce la sessione come il moderatore di un dibattito elettorale, e in teoria sa indicare la luce anche all’addict più disperato. Anche questo è un mestiere a parte, anche questo è pagato bene. (Il sito Sober Companions for Women offriva una summer special intervention per soli 800 dollari più le spese di viaggio! peccato che facciano consegne solo in California).

Intervention è la cosa più truce proposta alla cultura di massa in termini di trasgressione e redenzione in quaranta minuti netti? Macché. Il primato andrebbe a My Strange Addiction, sulla rete via cavo TLC, dove ti viene chiesto di accettare come grave tossicodipendente uno che non riesce a smettere di mangiare i pezzi di intonaco staccati dai muri. Ecco, Relapse, il suo spin-off durato solo una stagione, avrebbe potuto chiamarsi Come Intervention, ma molto peggio. I protagonisti, qui, sono persone che il linguaggio degli altri definirebbe “all’ultimo stadio”; addicts che ci hanno già provato, a guarire, più di una volta magari, e che ora rischiano la morte e la galera. Persone che vivono una resistenza feroce ai metodi di recupero convenzionali. Persone per cui, magari, davvero, la terapia non funziona. E qui entra in scena Patty Powers, la più luminosa in un gruppo di specialisti che vengono da te come amici, le mani in aria, bene in vista, offrono tazze di caffè e stanze d’albergo con le lenzuola pulite. Ti parlano piano, ti allontanano la mano dal vetro.

È difficile parlare di intervention e sober coaching nel contesto della cultura italiana, che per tradizione piange e ignora, rimuove il problema o ci prende in giro, e liquida tutto quanto come problemi dei ricchi. La verità è che non esiste dipendenza senza una forma di auto-narrazione precisa, personale. Come non esiste un recupero senza una serie di bugie funzionali; andrà tutto bene, ce la farai. Tu sei uno che si batte bene.

Un compagno pagato potrebbe essere solo l’evoluzione di una storia. Di una fiction necessaria per questioni di sopravvivenza.

 

(da Studio numero 11)