Attualità

Skype a Damasco

Come fanno i ribelli siriani a mantenersi in contatto? Mentre il regime taglia le telecomunicazioni, Skype diventa un'arma. Con qualche controindicazione.

di Davide Vannucci

I media lo hanno ripetuto fino alla nausea: a Tunisi e al Cairo è andata in scena la Twitter Revolution. Naturalmente, si tratta di un’esagerazione, ma pur sempre vero è che il popolare social network ha avuto un suo ruolo nel serrare le fila di quell’avanguardia, laica e occidentalizzata, che ha occupato le piazze nordafricane, fino alla fuga di Ben Ali e alla caduta di Mubarak.

In Siria, invece, è Skype ad essere allo stesso tempo icona e strumento della rivolta. Il regime cerca in ogni di modo di interrompere l’accesso alla rete per impedire le comunicazioni tra i ribelli. Internet funziona a singhiozzo e per un’intera giornata, lo scorso 29 novembre, c’è stato addirittura un blackout integrale. Ma le forze anti-Assad hanno studiato da tempo le contromisure, sfruttando la potenza dei satelliti che, a differenza delle connessioni “tradizionali”, sono piuttosto difficili da bloccare. Per comunicare attraverso Skype, quindi, bastano un telefono satellitare, spesso acquistato all’estero e fatto entrare clandestinamente nel Paese, attraverso il Libano e la Turchia, e un modem dial-up.

I motivi per preferire il software basato sul sistema Voip sono numerosi. È facile da scaricare e da utilizzare. Le video-chiamate permettono l’identificazione certa della fonte, un elemento importante quando si opera in un contesto confuso come quello di guerra. E, soprattutto, le telefonate, essendo criptate, sono difficilmente decifrabili dall’intelligence di regime.

Grazie a Skype i combattenti di Saqba, la periferia povera a venti minuti da Damasco, possono parlare con quelli di Homs, di Aleppo, di Dar’a, di Idlib, contattare le milizie addestrate nei Paesi confinanti, fornire dettagli militari ai diplomatici dei Paesi che li sostengono, in primo luogo gli Stati Uniti. I rivoltosi si scambiano informazioni, per localizzare il nemico e per conoscere i movimenti delle truppe regolari. Spesso vengono diffusi annunci di ricompense, come la taglia offerta in cambio di notizie sul capo dell’intelligence della stessa Idlib, accusato di avere ucciso cinque ribelli.

Teheran ha una grande esperienza in materia di contrasto alla dissidenza interna e ha fornito ai siriani una vasta gamma di sostegni: strumenti di sorveglianza, assistenza tecnica

Già da alcuni anni Skype è uno degli strumenti più utilizzati all’interno dei regimi totalitari, da oppositori politici e attivisti per i diritti umani. Ma le contro-indicazioni non mancano. Ad esempio, l’utilizzo dei telefoni satellitari rende più facile la localizzazioni di chi chiama. Il regime di Damasco ovviamente non è rimasto a guardare. Il filo-governativo Sirian Electronic Army ha reagito ai cyber-attacchi degli insorti e dei loro simpatizzanti stranieri. E negli ultimi mesi le forze al soldo di Assad hanno intensificato l’attività di monitoraggio dei dispositivi elettronici, grazie soprattutto al sostegno dell’Iran. Teheran ha una grande esperienza in materia di contrasto alla dissidenza interna e ha fornito ai siriani una vasta gamma di sostegni: strumenti di sorveglianza, assistenza tecnica, suggerimenti di tattiche per infiltrare nei forum e nelle chat i propri funzionari, travestiti da oppositori politici. Il cadavere di Baraa al-Boushi, ucciso ad agosto durante un bombardamento di Damasco, ne è la testimonianza. Baraa era stato individuato dopo un colloquio telefonico con un saudita, un presunto ribelle, che in realtà era un informatore del governo. Un colloquio apparentemente privo di rischi, proprio su Skype. A questa attività si aggiunge quella degli hacker filo-governativi, che, attraverso mail o messaggi inviati da pseudo-simpatizzanti, cercano di installare i classici malware nei computer dei ribelli, in modo da rubare password, collegarsi alle webcam, captare conversazioni.

Insomma, la guerra siriana si combatte anche a colpi di software, e non solo di kalashnikov. È nota la ritrosia di Obama ad armare direttamente i ribelli, ed è di questi giorni la notizia di un contrasto in questo senso tra il presidente e il Dipartimento di Stato, affiancato dal Pentagono. Gli Stati Uniti, però, forniscono da mesi “non-lethan assistance” ai rivoltosi. In sostanza, insegnano loro come utilizzare in maniera sicura le tecnologie di comunicazione, in primo luogo Skype, e gli forniscono tutti gli strumenti per operare quando non c’è copertura telefonica né rete Internet. Victoria Nuland, portavoce di Foggy Bottom, ha detto che l’equipaggiamento fornito da Washington permette agli attivisti di “non essere ascoltati dal regime e impedisce al governo di interrompere o manomettere le comunicazioni”. Un ufficiale americano, in un’intervista al popolare blog Mashable, ha rivelato i tentativi dell’amministrazione di persuadere Microsoft – che ha acquisito Skype nel 2011 per 8,5 miliardi di dollari – a migliorare le misure di sicurezza su Skype, ma dalla società di Redmond non sarebbe arrivata alcuna risposta. A gennaio 2013 Open MediaFoundation e altre 43 organizzazioni hanno inviato una lettera aperta ai dirigenti dell’azienda per chiedere maggiore trasparenza sulle politiche di privacy.

Hanno imparato a utilizzare al meglio i satelliti per sfruttare la connessione Internet, sanno di correre rischi, ma hanno capito di non avere alternative

Skype non è solo il principale mezzo di comunicazione per ribelli e attivisti. È una formidabile strumento per i media internazionali, che si servono del software per contattare le proprie fonti all’interno della Siria. Un esempio concreto viene fornito da Lara Setrakian, ex corrispondente dal Medio Oriente di ABC News, Bloomberg Television ed International Herald Tribune, oggi animatrice di Syria Deeply. Secondo gli stessi fondatori, si tratta di “un progetto giornalistico digitale, che mira ad esplorare modalità nuove per raccontare una crisi internazionale, servendosi della tecnologia e aggiungendo il contesto al contenuto”. Un modello, questo, che fa largo uso dei social media e di Skype. A raccontarlo è la stessa Setrakian: “Il nostro team dà grande importanza all’aspetto visivo, per raccontare il background della storia. Ma soprattutto il nostro modo di lavorare ha fatto sì che Syria Deeply sia diventato un magnete per coloro che combattono sul terreno. I siriani ci mandano le storie della loro vita quotidiana, gli attivisti ci invitano nelle loro chat, le traducono per noi in tempo reale”. Secondo la giornalista di origini armene, le conoscenze tecnologiche dei ribelli sono cresciute a dismisura nel corso del conflitto: “Hanno imparato a utilizzare al meglio i satelliti per sfruttare la connessione Internet, sanno di correre rischi, ma hanno capito di non avere alternative. E Skype è diventato il loro strumento principale. Lì gli attivisti, dentro e fuori il Paese, conversano tra di loro, e ci aggiornano costantemente riguardo alla situazione sul campo”.

Strumento di contatto tra miliziani, preziosa arma per i media, ma non solo. Secondo Eli Lake, giornalista di Newsweek e Daily Beast, la Cia si sarebbe servita di Skype, oltre che di Facebook e di Twitter, per contattare i funzionari siriani incaricati di gestire gli arsenali chimici. Un messaggio di deterrenza che non aveva bisogno di alcuna interpretazione: “Pensateci due volte prima di vendere le armi o di utilizzarle. Vi teniamo d’occhio”.