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Come Shirley Hazzard può cambiarti la vita

Morta il 12 dicembre, poco conosciuta ma vincitrice di due National Book Award, l'autrice australiana raccontata da chi ha curato l'edizione italiana del Transito di Venere.

di Francesco Guglieri

Non scrivo mai dei libri pubblicati dalla casa editrice per cui lavoro. Ancora meno parlo di quelli di cui mi sono occupato direttamente. Se faccio un’eccezione questa volta è perché lunedì 12 dicembre è morta Shirley Hazzard, l’autrice de Il transito di Venere, uno dei libri da me più amati e più ammirati, e in assoluto uno dei più belli su cui mi sia capitato di lavorare.

Sono passati otto anni, ma ricordo bene l’emozione, il coinvolgimento, lo stomaco che si chiude mentre rivedo la, peraltro ottima, traduzione di Daniela Guglielmino. Il tipo di lettura che si applica mentre si rivede una traduzione o si edita un manoscritto è molto diversa da quella, tra molte virgolette, “normale”: è più lenta, più consapevole, più concentrata su elementi che precedono la formazione del senso e dei significati, si ferma sulle singole parole, sulle scelte lessicali, si interroga sulle architetture sintattiche e così via. Insomma, quello che voglio dire, è che è molto difficile che l’emozione superi tutti questi filtri e ci si ritrovi a lavorare con gli occhi lucidi. Può succedere quando un testo lo si legge prima (per acquisirlo) o dopo, non durante. A me è capitato con pochissimi libri, Patrimonio di Roth, Il museo dell’innocenza di Pamuk. E Il transito di Venere di Shirley Hazzard.

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Shirley Hazzard è nata a Sidney nel 1931 da genitori delle isole britanniche emigrati, come molti compatrioti negli anni Venti, in Australia. In quegli anni l’Australia era un Paese a dir poco arretrato, provincialissimo, che non aveva nulla da offrire a una ragazzina intelligente come lei: una di quelle bambine silenziose e dagli occhi grandi che osservano il mondo circostante e che non possono non vedere l’abisso che separa la loro realtà dagli orizzonti che aprono i libri. Fortunatamente lascia l’Australia adolescente, al seguito del padre che durante la guerra gira l’Estremo Oriente per conto del governo. Negli anni Cinquanta si trasferiscono a New York e, mentre il matrimonio dei genitori affonda in una sorda infelicità, Shirley, poco più che ventenne, inizia a lavorare all’Onu. Negli anni Sessanta pubblica i primi racconti sul New Yorker: in quel periodo la rivista stava vivendo il suo periodo più luminoso sotto la direzione di William Shaw e con William Maxwell – altro grande scrittore poco conosciuto da noi – responsabile della narrativa. Joe Mitchell si aggira in redazione, Salinger ancora passa ogni tanto, e la rivista esce ogni settimana con dei racconti di Nabokov, o delle poesie di Auden o un saggio di Edmund Wilson. Più tardi la Hazzard abbandona il palazzo di vetro (a cui però dedicherà due libri di non fiction e molti articoli, spesso critici sulla sterile inoperosità degli uffici dell’Onu e, in particolare, sulle ingerenze delle grandi potenze per abortirne le aspirazioni internazionalistiche) e si dedica alla scrittura. Non è una scrittrice prolifica: pubblica quattro romanzi, The Evening of the Holiday (1966) e The Bay of Noon (1970); gli ultimi due, Il transito di Venere del 1980 e Il grande fuoco del 2003, vincono entrambi il National Book Award. Durante la cerimonia del National del 2003, Stephen King tiene un discorso per l’accettazione di un premio alla carriera: una lunga, appassionata, quasi violenta difesa della narrativa popolare. Quando, subito dopo, prende la parola, la Hazzard gela la sala uscendosene con un «Non penso che fare una lista dei bestseller più venduti sia molto proficuo».

Sono due gli incontri più importanti nella vita della Hazzard: quello, del 1963, durante una festa a casa di Muriel Spark con Francis Steegmuller, critico, biografo e scrittore. Si sposeranno alla fine di quello stesso anno e rimarranno insieme fino alla morte di lui, nel 1994. Il lavoro alla Nazioni Unite negli anni Cinquanta, soprattutto per una donna, era poco più che impiegatizio, ma la Hazzard conosce il francese e l’italiano e viene mandata a Napoli: quello con la città partenopea è l’altro grande incontro della vita. Dagli anni Sessanta i coniugi abiteranno sempre metà dell’anno a Capri, e poi tra Capri – che sarà sempre il loro buen retiro e di cui le daranno la cittadinanza onoraria – e Posillipo. Si dice che a Capri, sul menu dello storico ristorante Da Gemma ci fosse una foto dei coniugi Steegmuller insieme a Graham Greene. Da Gemma ha chiuso nel 2012 per essere ultimamente rilevato dallo chef Gennaro Esposito.

Oltre Napoli, la Hazzard condivide un’altra cosa con Elena Ferrante (di cui meriterebbe un pari successo): la capacità di avvincere il lettore con storie melodrammatiche. Ma che, nel caso della Hazzard, si basano su una perizia stilistica e strutturale che ha pochi pari nella narrativa contemporanea. Il transito di Venere è il romanzo che mi ritrovo più spesso a consigliare a uno scrittore: non c’è praticamente amico che scriva che si sia risparmiato la mia lode al romanzo della Hazzard. È davvero uno di quei testi che andrebbero insegnati nelle scuole di scrittura.

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Il libro prende il titolo da un fenomeno astronomico: il passaggio di Venere davanti al disco solare. Un fenomeno che permette una visione particolarmente chiara del pianeta, ma che è molto raro. «Un francese era partito per l’India per osservare un transito, ma guerre e sventure l’avevano trattenuto lungo la strada. Perduta quella prima opportunità, attese otto anni in Oriente per il transito successivo, quello del 1796. Ma quando giunse il giorno, per la visibilità capricciosamente scarsa, non vide nulla. E il transito successivo era dopo un secolo». Un uomo dedica la propria vita a quel preciso momento, a quel determinato appuntamento. Quando poi lo perde aspetta anni per una seconda possibilità e quando questa si presenta, per un capriccio del caso, in un attimo, manca di nuovo l’incontro. «Anni di preparazione. E poi, da un’ora all’altra, tutto finito».

Il romanzo della Hazzard racconta la storia di due sorelle australiane, Caroline e Grace, emigrate nell’Inghilterra degli anni Cinquanta con la speranza di lasciarsi alle spalle la tragedia che le ha rese orfane. Qui conoscono un giovane scienziato, Ted Tice, che si innamora di Caroline: lei non ricambia l’amore puro e incondizionato di Ted, un bravo ragazzo un po’ bietolone, ma si invaghisce del vacuo Ivory, privilegiato e brillante commediografo, fidanzato con l’algida Tertia. Il romanzo segue la vita di questi personaggi per un trentennio fin quando, apparentemente, l’ostinazione e la pazienza di Ted sembrano portare a una felice conclusione.

Cosa fa la Hazzard con Il transito di Venere? Una cosa pazzesca, che tento di smontare da anni. Proviamo a spiegarla. La grande differenza tra le arti visive e il romanzo è data dalla diversa temporalità della loro fruizione. Un quadro lo vedo tutto immediatamente, basta uno sguardo: poi potrò soffermarmi sui singoli particolari, lasciar correre lo sguardo su piccole porzioni della tela, ma intanto una singola occhiata mi ha già permesso di vederlo tutto. Un romanzo invece richiede tempo per essere fruito e ogni pagina modificherà in parte l’interpretazione (tanto dei significati generali – cosa “vuol dire” questo libro? – quanto dei piccoli dettagli ermeneutici – chi è questo personaggio, perché compie questo determinato gesto?). La Hazzard scrive due romanzi, uno dentro l’altro: uno visibile, quello che leggiamo e che interpretiamo consapevolmente, raccontandoci una vicenda che crediamo di capire e che ci avvince – Ted ama Caroline che ama Ivory e via discorrendo – e intanto scrive un altro romanzo, un romanzo segreto, nascosto, cifrato dentro il primo. Non un’altra storia, ma la vera storia di Ted e Caro e di tutti gli altri, di cui la Hazzard cosparge le pagine di indizi, elementi, allusioni a cui non diamo importanza, o che interpretiamo in maniera del tutto opposta, o a cui semplicemente non facciamo caso ma che intanto si sedimentano nella nostra testa.

È come se la Hazzard installasse un virus dentro il lettore, a sua insaputa nascondesse delle cariche di dinamite che poi fa esplodere solo all’ultima pagina. Anzi nemmeno all’ultima pagina! Qui è l’estremo virtuosismo dell’autrice. La vera illuminazione, il vero shock non arriva alla fine, ma dopo. Solo nel non detto, nel sottinteso che l’ultima riga lascia depositare nella consapevolezza del lettore, solo a quel punto tutto quello che si è letto fino ad allora acquista di colpo un altro significato, facendo letteralmente esplodere il cervello ma soprattutto il cuore di chi ancora tiene il libro tra le mani. Perché sapevamo tutto fin dall’inizio, fin dalle prime pagine ci dice come sarebbe andata a finire, solo che non l’avevamo visto, l’avevamo interpretato in maniera del tutto opposta. Ce l’abbiamo sempre avuto sotto gli occhi ma non avevamo capito: quante volte lo diciamo nella vita, seduti al tavolo del rimpianto? E tutto questo, che raccontato così sembrerebbe un giochino metaletterario, un intrattenimento postmoderno, non ha nulla di gratuito, di ludico, né di noioso e sterile. Al contrario. Gli scrittori dilettanti – ma ahimè anche molti di quelli pubblicati – pensano che scrivere voglia dire raccontare l’emozione che prova chi scrive, quando in realtà è l’opposto: si scrive per produrre un’emozione in chi legge. E se lo fai con un romanzo devi essere consapevole che il romanzo è un’arte che ha a che fare soprattutto, se non unicamente, col tempo.

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Il romanzo della Hazzard è la tragicissima messa in forma romanzesca di ciò che intendeva Proust quando scriveva di «quel perpetuo errore che è la vita». Una lunga, spesso interrotta, sequenza di interpretazioni sbagliate, è la vita, un’ostinata convinzione di aver capito, di capire gli altri, di capire chi ci sta accanto, di possedere l’altro, di controllare il mondo, quando in realtà non abbiamo mai capito nulla. E di nulla capiamo meno dell’amore.

E cos’è l’amore se non un transito, sembra dire la Hazzard, l’attraversamento di un territorio abitato da popolazioni nomadi. Una sfera che appartiene alla caducità crudele delle cose terrene anche se ci piace immaginarlo fatale come un destino e preciso come un oroscopo. Ma con l’oroscopo condivide un’unica caratteristica: che funziona solo all’indietro. Dice di prevedere il futuro (“saremo felici per sempre insieme”) ma è solo un’interpretazione, una lettura, che applichiamo al passato. Come un gruppo di stelle in cui solo a posteriori sapremo riconoscere l’asterismo di una costellazione.

Perché la tragedia non è l’amore quando passa, ma l’amore quando resta e a passare è tutto quello che c’è intorno. Quando sopravvive a tutto, l’amore, ai capricci, ai malintesi, al disamore altrui, ai disastri intorno, alle perdite, a tutto, sopravvive, tranne che a se stesso: è in quel momento, in quel tempo postumo che può durare l’istante di una presa di coscienza o una vita intera, che i grandi scrittori mettono in scena la tragedia. Quando resta bloccato, l’amore, come un astronomo dall’altra parte del mondo in una notte di pioggia.