Cultura | Fotografia

Salgado, i selfie e le migrazioni

Intervista a uno dei più celebri fotografi del mondo.

di Giuliano Malatesta

Sebastião Salgado ha un leggero problema di udito. «La mia sordità», racconta, «è cominciata in Kuwait, nel 91’, alla fine della Guerra del Golfo». Mentre tutto il circo mediatico faceva rapido ritorno a casa al termine di quella che è passata alla storia come l’ultima “guerra classica” e il primo conflitto trasmesso in diretta televisiva, il fotografo brasiliano rimase sul campo per raccontare il dietro le quinte del conflitto. «Ricordo un gigantesco palcoscenico di cinquecento pozzi petroliferi che bruciavano, colonne di fumo e petrolio talmente dense che il sole non riusciva a passare, sembrava sempre piena notte, la terra rimaneva bollente, era come lavorare accanto alle turbine di un jet». Davanti a uno di questi straordinari racconti, le vite degli altri sembrano irrimediabilmente piccole, quando non particolarmente significative.

Forse per questo fa sorridere trovarlo, in gran forma, lo sguardo attento e curioso come se stesse continuamente aspettando quella frazione di secondo in cui «si coglie un po’ la vita della persona che si fotografa», in un casale della periferia di Roma Nord dove ha partecipato come special guest alla penultima puntata di “Master of Photography”, che Sky Arte manderà in onda martedì 10 luglio alle 12.15 in 5 Paesi (Italia, Regno Unito, Irlanda, Germania e Austria). Il talent show europeo dedicato al mondo della fotografia vede come giurati Oliviero Toscani, Mark Sealy, curatore e presidente dell’associazione ABP Autograph, ed Elisabeth Biondi, storica visual editor del New Yorker.

«Mi sono divertito, è stata una piacevole sorpresa scoprire di essere vicino a questi giovani fotografi», sorride Salgado, prima di tornare serio quando gli domando quale sia oggi il valore da attribuire alle immagini e come sia cambiato il suo utilizzo in quest’ultimo compulsivo decennio. «Direi che prima cosa bisognerebbe fare una distinzione fondamentale: la fotografia è una cosa, le immagini un’altra», ci tiene a sottolineare, come se davanti avesse una classe di studenti alla prima lezione di un corso per principianti. «Forse prima pensavamo che fossero la stessa cosa, ma abbiamo scoperto che così non è. La fotografia è la fotografia, un qualcosa che ha memoria, che racconta una storia, qualcosa di tangibile, che puoi realmente toccare. L’immagine, al contrario, è un linguaggio che le persone usano per comunicare, ma che non ha nulla a che fare con la fotografia».

Viste le premesse è quasi impossibile non domandare ad uno dei più grandi fotografi del mondo, uno che sull’estetica fotografica ha costruito la sua originale forma di scrittura, cosa pensi dell’ossessiva mania del XXI secolo, comunemente chiamata selfie, anche se mi rendo conto che sarebbe come chiedere a Caravaggio di trasfigurare uno dei suoi soggetti. Michelangelo Merisi risponderebbe che il pittore non è tenuto a conoscere “la geometria precisa dei corpi e dello spazio” ma a osservare ciò che l’occhio propone alla visione.

«L’auto-ritratto? È un disastro», risponde il fotografo brasiliano, e sul suo volto si può quasi cogliere un’ombra di rassegnata disperazione, consapevole dell’impossibilità di frenare la modernità. «Distrugge la persona. È solo un modo di dire, “Hey, I’m here”. È un linguaggio. Ma dimentica di raccontare parte della storia che tu racconti quando scatti una fotografia». Qualcosa senza memoria, destinata rapidamente all’autodistruzione. Eppure i suoi amici lo avevano avvertito quando, ancora ragazzo, abbandonò il lavoro in campo economico scegliendo di passare il resto della propria vita in compagnia di lenti, obiettivi e camere oscure. «Stai facendo la scelta sbagliata – mi dissero – sarebbe molto meglio per te diventare un cameraman, perché il futuro dell’umanità è nei video». Qui Salgado accenna un sorriso, fa una impercettibile pausa e riprende: «Avevano ragione solo in parte. E’ vero, i video sono diventati molto importanti, ma le immagini oggi contano di più».

In ogni caso è curioso pensare che quella “scelta” in realtà non fu il frutto di  una vocazione ma sia arrivata casualmente, prima di maturare e trasformarsi in un progetto di vita. «Eravamo in vacanza, ad Orsay, vicino Parigi, mia moglie Lelia aveva comprato una macchina, una Pentax, per fare della foto e io per caso mi ritrovai questo strano oggetto nelle mani. Da allora non sono più riuscito a liberamene». Anche se per un certo periodo, di ritorno dal genocidio in Rwanda, fu costretto a fermarsi. «Troppo forte era la disperazione per quello che avevo visto. Una pausa era necessaria. Così tornai in Brasile, con mia moglie. Avevamo ricevuto la terra dai miei genitori, avevamo una fattoria, cercammo di diventare agricoltori». Fu in quelle terre del sud-est brasiliano, dove era cresciuto, che Salgado riuscì nell’impresa di ricreare un ecosistema oramai scomparso e conseguentemente di ritrovare quell’ispirazione che poi gli avrebbe consentito di dar vita a Genesis, straordinario omaggio alla natura incontaminata del pianeta.

Sembra difficile trovare un lavoro del fotografo brasiliano che non sia straordinario per un qualche motivo. Ma se Workers, meraviglioso racconto di archeologia industriale sulla condizione umana di fine Novecento, è forse il suo lavoro più ambizioso e comunque quello che maggiormente risente dei suoi studi economici, «che mi hanno permesso di avere una capacità di analisi che molti miei colleghi, seppur bravissimi fotografi, non erano in grado di possedere», a osservarli oggi i suoi reportage sulle migrazioni di intere popolazioni realizzati intorno alla metà degli anni Novanta risultano talmente  attuali da chiedergli se davvero l’Europa, che lui conosce bene, sia diventata una fortezza incapace di accogliere. «Credo che da voi ci sia un problema di percezione del fenomeno. Queste migrazioni ci sono sempre state, ma solo ora l’Europa si accorge che esistono, perché tutte queste persone fuggono verso l’Occidente. Io ho fatto un libro sui rifugiati che ho finito nel 2000 e ho lavorato su questo tema per oltre sette anni, e posso dire che la situazione non era migliore o peggiore di come è ora. L’unica differenza è che ora tutto sta accadendo all’interno dei vostri confini».

L’ultimo pensiero però è per la moglie, compagna di vita da oltre mezzo secolo, senza la quale probabilmente non sarebbe esistito il fotografo ammirato da tutto il mondo. «Stiamo insieme da quando lei aveva sedici anni, io diciannove. Per me è come una grande stella», dice abbassando un po’ il tono di voce. «Spero davvero, quando arriverà il momento, di poter morire insieme a lei. Non so davvero cosa farei se andasse via prima di me».

 

Foto: “Ethiopia, 1984” (nel testo: “Kuwait, 1991”; “Gold mine of Serra Pelada. State of Para, Brazil, 1986”; “Marine iguana. Galapagos, Ecuador, 2004”)