Attualità

Sconcerto Moratti

di Cesare Alemanni

Non so dove ma da qualche parte regalano dei collari, di quelli che se li spezzi s’illuminano. Si ha come l’impressione che servano per distinguere chi si trova lì per caso e chi perché ci crede davvero. Curiosamente, uno ogni tre di questi collarini è arancione. Forse è solo una mia impressione, penso. Ma poi, no guardo meglio; l’arancione è proprio il colore che va per la maggiore. È davvero uno su tre. Possibile che non ci abbiano pensato? No, non ci hanno pensato.

Quando arrivo, le ultime luci della sera si vanno spegnendo su Piazza Duomo, filtrano negli spazi vuoti tra le persone. Sul palco sta finendo di suonare un gruppo che propone un rock piuttosto pesante e se le mie conoscenze musicali non m’ingannano, direi proprio che è crossover. Sono tutti agghindati in maniera piuttosto eccentrica, uno di loro indossa una maschera antigas e porta dei dread che gli arrivano quasi ai piedi. Non è esattamente quello che mi aspettavo di trovare, al “Concerto per la Moratti”™. Terminata l’ultima canzone salgono sul palco due giovani conduttori. Dicono cose come “Milano non è solo la capitale della moda ma anche della musica!!!”, “Dare spazio a giovani band!!!!”, “L’opportunità di suonare in piazza Duomo, mica in un localetto di periferia!!!”. Poi dicono “rock sperimentale!!!” Ora, sempre se le mie conoscenze musicali non m’ingannano, il crossover è un genere musicale che ha vissuto il suo apice di popolarità intorno ai primi anni del duemila e già all’epoca era tutto meno che sperimentale. Ho davvero troppe pretese.

“Hai provato il cous cous?” Domanda un signore azzimato con una giacca blu, tenuta appesa dietro le spalle con un dito – un segnale internazionale per suggerire disinvoltura – a un altro tizio. Non riesco a sentire la risposta. Dopo il crossover, il cous cous. Mi chiedo se ho sbagliato giorno. Cerco il cous cous ma non lo trovo. Non voglio mettere in dubbio la parola dell’uomo azzimato fino alle Hogan, quindi concludo che sicuramente da qualche parte ci sarà. Ben nascosto.

L’alimento più diffuso, comunque, sono dei quadratini di focaccia, dall’aria un po’ inespressiva, accompagnati da birrette in bicchieri da 20 cl. Mentre vago per il cous cous m’imbatto, nell’ordine, in una famigliola musulmana dotata di collarini fluo, un ragazzo di colore con la t-shirt bianca dei “Giovani Per Silvio” e un albanese con la coccarda blu della campagna. Intanto sul palco un trio vocale propone una cover di “Knocking on heaven’s door”. Bob Dylan dove lo metti sta.

Sono le nove e a e da una terrazza della Galleria Vittorio Emanuele ci guarda una gigantesca riproduzione dello scudetto del Milan, quando i due maxischermi annunciano la tanto attesa sorpresa internazionale. Si tratta di Brian Ferry, leader degli ormai sciolti Roxy Music; una vecchia gloria di quelle che ogni tanto transitano per Sanremo. Nel frattempo iniziano ad aumentare i fan di Gigi D’Alessio. Sì beh, li riconosci.

Mentre canta Brian Ferry cerco di ricordare se è un mio “trip” o se ho davvero letto da qualche parte che in gioventù Letizia amava il New Romantic, dopodiché mi sovviene anche il nome della vecchia trasmissione di Red Ronnie: Roxy Bar (ora è il suo sito). Mi domando se le tre cose siano collegate.

Non è il mio genere, ma Brian sa il fatto suo. Palesemente non lo conosce nessuno, a parte quattro americani; due coppie. Scopro che vengono dallo Utah. Ballano divertiti e imbarazzati per un po’, dopodiché se ne vanno. Là in mezzo, nella zona più affollata, quella in cui le bandiere del PDL si mescolano allo zoccolo duro dei fan di D’Alessio nella pause tra le canzoni qualcuno comincia a urlare: “Gigggi! Giggggi!”.

Con la cover di All Along The Watchtower proposta da Ferry, Dylan diventa ufficialmente l’artista più evocato della serata. Sul maxischermo compare la Moratti, stringe mani in mezzo al pubblico e improvvisa un balletto; anche lei indossa un collare (rosa). Sembra migliorata rispetto a quella famosa volta. Comunque sia, la sua apparizione non suscita grandi entusiasmi, eccetto in un signore alle mie spalle. Urla: “Basta musica, fatela parlare”. C’è aria di cose che stanno fuggendo di mano. Mi danno un volantino della Lega. Comincia così: “Giuliano Pisapia, votato da No Global fondamentalisti…”. Me lo ha messo in mano un ragazzo con la maglietta Giovani Per Letizia. Curiosamente aveva un forte accento romano.

Ore 21 e 45 passate. Ferry saluta e se ne va. La sensazione è quella di 8.000 (su 10.000) paia d’occhi puntate sul maxischermo, in attesa dell’annuncio che aspettano da ore: Gigi D’Alessio. Niente, solo un sibillino, “La festa continua…”. È quindi arrivata l’ora che la “festeggiata” salga sul palco. Il signore alle mie spalle dice “oooh finalmente”. E poi abbraccia la moglie.

Lei – La Letizia – ha la voce emozionata o forse solo stanca. Provo un po’ di compassione. Provo sempre un po’ di compassione per la solitudine dei festeggiati. Dice qualcosa tipo “Vi ringrazio amici, vi ringrazio gente. Come voi, io amo Milano e lavorerò sempre per Milano. Per renderla sempre più bella”. A quel punto il microfono passa a Formigoni che “ringrazio Letizia per tutto quello che ha fatto e che sicuramente farà nei prossimi cinque anni. Viva Letizia!” Sembrano due discorsi troncati a metà, o  mai nemmeno cominciati per davvero.

Di colpo – magicamente prima sul maxischermo che sul palco – si materializza Iva Zanicchi. Matronesca e scapigliata. Dice: “Madunina”, “Milan l’è un gran Milan”. Parla di simboli. Dice: “Viva Letizia”. Dice: “cantiamo ‘O mia bela madunina’ tutti in coro””. Chiede quanti, in piazza, siano milanesi. Veri milanesi da generazioni. Da sotto: “Vogliamo Giggggi!”. Lei: “Sta zitto, adesso arriva il to’ Giggi”. C’è una parola che striscia in mezzo alle figure sul palco e quella parola è “terroni”. Non so se la Zanicchi se ne stia rendendo conto, ma il suo intervento sta diventando la Fossa delle Marianne delle serata. Oltre il punto di non ritorno.

Guardo la Moratti, sì, decisamente provo dell’imbarazzo. Quello che sta accadendo basterebbe per espiare cinque o sei mandati.

Quando la combriccola sul palco termina la seconda esecuzione di “O’ Mia Bella Madunina”, le cose prendono un’accelerazione inattesa e in trenta secondi succede che: 1) la Zanicchi dia, più o meno scherzosamente, del “pugliese” a qualcuno (non è chiaro se sul palco o nel pubblico), 2) la Zanicchi annunci che la serata continua con … del teatro in milanese (primi fischi) 3) la Zanicchi prosegua annunciando… dell’altra musica che non è Gigi (fischi più forti) … e 4) la Zanicchi concluda con “e ora abbiamo Gigi D’Alessio…al telefono” (fischi fortissimi).

Parte il collegamento. La voce di D’Alessio giunge debolissima per un solo istante. Potrebbe essere chiunque e comunque nessuno ha voglia di fargli domande o di sentirlo parlare, scusarsi, spiegare il motivo della sua assenza. Nemmeno i suoi fan. Si sentono tutti traditi, ma del resto fino ad allora non si poteva dire niente, altrimenti la piazza si sarebbe svuotata dell’80% dei suoi occupanti. Così, nel giro di quindici secondi, qualcuno – forse la stessa Zanicchi – farfuglia nel microfono un “non si sente!”, e il collegamento viene interrotto bruscamente e tutto l’entourage della Moratti scivola fuori dal palco, muovendosi come un unico corpo barcollante. Sembra la scena di un film muto.

La piazza fischia. Nonostante tutto vogliono ancora Giggi. Due attori, un uomo e una donna, leggono frasi di Montanelli e Marinetti come introduzione a testi inediti in cui – tralaltro – si esaltano varie macchiette del lavoratore milanese modello. Tipo quello che a tarda ora mangia Sushi di fronte al futuro Skyline di Milano e intanto si dedica al proprio laptop. La donna pare leggermente traumatizzata. Lo sono tutti.

Dopodiché parte del rock. E dopo ancora della techno.

Mi sbagliavo, sembra un musical sulla storia del Titanic.