Attualità

L’importanza di non essere Ligresti

Il racconto di una giornata in compagnia di Salvatore Ligresti, impietoso antieroe del capitalismo italiano, oggi definitivamente in disgrazia.

di Gianluigi Ricuperati

I soldi hanno bisogno di troni e parabole, trame e fabule. E il capitalismo italiano deve con urgenza riscrivere una mappa narrativa e un suo territorio etico: eroi certificati e altrettanto certificati antieroi. Gli eroi, purtroppo, sono pochi. Ligresti, che ora è caduto in uno stato di disgrazia pressoché definitivo (anche per uno che si è tirato su dalla melma un paio di volte nella vita), ha con certezza giocato il ruolo del grottesco antieroe, scavato all’ombra del più grottesco antieroe che tutti ben conoscono. Ligresti, Salvatore, nato a Paternò, Sicilia, nel 1932, laureato in Ingegneria e già all’epoca dei fatti anziano e furbissimo teenager del denaro: placido, spietato hooligan di un mercato tutt’altro che libero, schiavo delle relazioni decennali, schiavo del provincialismo della penisola, schiavo delle influenze criminali e di una certa antropologica volgarità nel rapporto con i soldi. Ligresti e la sua famiglia sono stati il cattivo esempio che il capitalismo italiano potesse dare in un’epoca – i primi anni Duemila – durante la quale il nostro Paese ha svolto il peggior tema in classe della sua storia recente, mettendo le basi per un disastro che solo per caso e necessità non si è del tutto compiuto.

Nel 2007 ho passato un’ora e mezza con Salvatore Ligresti. Non sono un giornalista investigativo e giudiziario e quindi lascio ad altri il compito di dimostrare quanto disgraziata e miserevole sia stata la sua presenza nel mondo dell’imprenditoria e della finanza italiana. Quel che posso raccontare è l’impatto che un giovane autore, allora trentenne, ebbe per puro caso con un uomo che nei primi minuti del nostro incontro si è definito come «seduto su novemila miliardi di vecchie lire». Entro la prima mezz’ora si è definito «persona d’onore» perché quando era stato in carcere «non aveva parlato». Entro la prima ora aveva parlato bene di Berlusconi e dei geometri «che hanno progettato l’Italia». Prima della fine del nostro incontro mi aveva chiesto cosa facevo e mi aveva promesso un intervento «per dare un aiuto» alla mia carriera.

Ma procediamo con ordine. Per un incarico professionale mi trovai nel marzo di quell’anno ad accompagnare un gruppo di persone a un colloquio piuttosto urgente con Salvatore Ligresti, che all’epoca aveva le mani su mezza Italia fisica e immateriale: quartieri e assicurazioni, partecipazioni e investimenti, editoria e filantropia. Non dovevo essere io a partecipare alla riunione, ma la persona che doveva farlo si era ammalata e mi chiamarono la sera prima, comprandomi un biglietto di mattina presto per Roma. La riunione si doveva tenere a Villasimius, in Sardegna, che Ligresti avrebbe raggiunto noleggiando un volo privato dall’aeroporto di Ciampino.

Dell’incontro conservo questa fotografia “fatta con le orecchie” (cioè fingendo di telefonare):

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Dell’incontro conservo anche una serie di impressioni e di parole conficcate nella memoria: cercherò di riportarle più fedelmente possibile, come la trascrizione della visita a un monumento che poi si è disgregato. In effetti oggi Ligresti è totalmente sparito dall’orizzonte ottico. I suoi figli sono andati in carcere o sono fuggiti dal carcere. Il carcere torna spesso nella petit musique della conversazione ligrestina (un raro caso di patron che non si è lasciato sedurre dalle luci della vanità televisiva, e difatti non si trovano interviste su Youtube).

Ligresti è a tutti gli effetti uno dei numi misteriosi della storia finanziaria italiana, probabilmente meno misterioso per gli inquirenti e per gli esperti di intrecci tra economia e criminalità organizzata, ma comunque io trovo abbastanza affascinante il semplice dato di fatto che un uomo di umili origini e di frequentazioni ambigue sia giunto a dialogare con tutti i nomi pivotali del Grande Gioco del Denaro tra le Alpi e il mar Ionio degli ultimi trent’anni: da Enrico Cuccia a Silvio Berlusconi, da Cesare Geronzi al patto di sindacato del Corriere della Sera. Ecco alcuni momenti che non riesco più a trattenere, a quasi dieci anni di distanza:

 

L’accento

Ligresti parlava con un pesante accento meridionale, quasi caricaturale, più lontano possibile da ogni affettazione da classe alta: pur desiderando l’elevazione tipica dell’ascesa all’empireo del potere vero (quello finanziario e assicurativo), Ligresti non ha mai dimenticato le proprie origini: la sua phonè non ha mai giocato a nascondino con la sua identità. Poteva presiedere il più grande gruppo assicurativo italiano, poteva influenzare nomine cruciali, poteva tenere sotto schiaffo politici e faccendieri, poteva sedere nei consigli più influenti, ma il suo tono – il suo timbro sociale – rimaneva quello di sempre, quello che connette in un solo tratto di corda vocale la battuta col capocantiere e la confidenza al notaio che ti guarda dall’alto in basso, la chiacchierata con il ladro di fichi e certi canali privilegiati del discorso maschile sugli interessi reciproci. Il suo tono metteva d’accordo l’uomo comune e l’uomo che non si accontenta di essere un uomo comune. Ligresti parlava con l’accento inferiore di un superuomo pieno di desideri.

 

Il giornale

«Quindi tu ogni tanto scrivi?»

«Sì. Nel tempo tra un lavoro e l’altro».

«E scrivi su qualche giornale?»

«Ogni tanto su La Stampa».

«E il Corriere no?»

«Eh… non è facile scrivere sul Corriere».

«Ma tu lo sai che noi abbiamo un po’ del Corriere».

«Certo».

«Allora quando scendo parlo a Paolo».

«Ah».

«Lo sai chi è Paolo, vero?».

«Ehm».

«Paolino Mieli. Devo parlarci così ti ascolta lui. Ricordamelo, quando scendiamo».

(Tutto questo dopo pochi minuti di reciproca conoscenza, e senza aver discusso di nulla in particolare: e va detto che ovviamente dopo non ha mai chiamato Paolo Mieli. Il wild boy capitalista sciorina la possibilità generosa e poi ci spreme un bel limone sopra, in modo da astringerla fino a farla sparire. “Tutto questo un giorno sarà tuo”, applicato al primo che incontri, e poi disapplicato come un cerotto, perché tutto è nulla).

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Il Tanka Ride

La mattina presto, al Tanka Village di Villasimius, ove tanti amministratori e politici hanno soggiornato a spese della Ata, il braccio turistico del piccolo impero, l’Ingegnere ci ha portati personalmente a fare un giro in un cart da golf, imboccando stradine vietate, falciando l’erba dei praticelli, rombando col motore elettrico nel silenzio senza recriminazioni di case vacanza addormentate, alle sei di mattina: il capitalista italiano alla guida, il settantenne forte e piè veloce, contro ogni regola e contro ogni regolamento, in totale sprezzo di ogni barriera, saltando da un viale a una piazzola, dal bordo piscina al parco giochi dei bambini, come se stessimo facendo uno sport urbano nella proprietà di qualcun altro, come se fossimo in un film tipo Kids, o forse in uno sgranato Gus Van Sant: Ligresti car operator, Ligresti tour operator, Ligresti che per mostrare la sua gentilezza guida alla massima velocità possibile un mezzo di servizio per tagliare in obliquo tutto l’appezzamento e condurci accanto alla spianata d’asfalto dove attende l’elicottero per non farci perdere l’aereo. Ligresti che chiama la società aeroportuale per far attendere il velivolo Air One diretto a Roma, perché la sua holding di famiglia ha investito sempre le risorse provenienti dal mattone per acquisire partecipazioni di minoranza di banche, assicurazioni, aziende varie e ovviamente aeroporti. “Mister 5%”, come veniva affettuosamente chiamato dal giornalismo economico spesso attento alle esigenze degli azionisti, non passa un giorno senza fare qualche favore alle persone utili: e le persone utili, la saggezza insegna, possono nascondersi ovunque: anche sotto le sembianze di un malcapitato trentenne.

Ligresti, per quel poco che l’ho conosciuto, un dettaglio in un prisma ben più complesso, sapeva toccare le corde ben note nell’animo umano. Il desiderio di avere amici in posti preziosi. Il desiderio di scaldarsi al sole di una disponibilità infinita. Il desiderio di avvicinarsi al corpo di un capitalista per volontà e necessità, un principe autonominato dalle movenze attente e reattive. Un uomo gentile come lo sono certi uomini all’antica, ma sempre con l’obiettivo ben chiaro di arrivare da qualche parte al di là del gesto di gentilezza. Non c’era caos nella stella brillante che dagli oscuri inizi di Paternò, Sicilia, è riuscito a sedersi nel consiglio di Unicredit, a lanciare le rose alle più brave cantanti d’opera del mondo (sponsorizzando i teatri stabili, cioè facendo una grande cortesia ai sindaci di mezza Italia), a entrare e uscire dal carcere come una fenice ben temperata, piazzando i figli e gli amici fidati nei gangli fondamentali della struttura societaria. E non c’è problema che non si possa risolvere, quando possiedi quel tipo di volontà di potenza: trent’anni prima, nel 1981 – quando sua moglie fu rapita mentre faceva la spesa a San Siro, tutt’ora quartiere-feticcio della famiglia, oltre che zona ricca di immobili i cui affitti per decenni hanno generato l’argent de poche familiare – Ligresti pagò seicento milioni di lire per il riscatto, e ottenne la liberazione. Ma due dei tre rapitori, appartenenti alla criminalità organizzata, furono barbaramente uccisi qualche tempo dopo, in circostanze piuttosto misteriose.

 

I figli

I figli, per quel che ricordo, erano il grande cruccio e il grande orgoglio di Don Salvatore: un padre diventato grande negli anni Ottanta, con possibilità economiche sempre crescenti, non poteva che trasformarsi in un educatore lassista e protettivo. Ed è proprio per alimentare lo stile di vita super impegnativo dei figli, due femmine e un maschio, che l’impero si è sgretolato: la Sai ha rischiato di crollare perché Jonella Giulia e Paolo, che a causa della perdita di requisiti di onorabilità necessari da parte del papà erano stati cooptati in ruoli chiave degli organigrammi decisionali, hanno letteralmente usato le aziende di famiglia come una cassaforte magica.

In tutt’altro contesto, tempo fa, un altro signore ricchissimo mi ha chiesto un po’ stupito: «Ma i suoi conti correnti non sono auto-alimentati?», intendendo domandarmi se per caso non avessi anch’io, come lui, un trust che generasse interessi, rimpinguando le casse. Risposi di no, suscitando un misto di sorpresa e disapprovazione infantile che non dimenticherò facilmente. Ecco, io credo che la tragedia dei Ligresti sia stato un macroscopico errore di calcolo: quando la vita interiore è così sterile che l’unica forma di eccitazione e di calma conseguente deriva dal rutilare delle cifre nella mente e su uno schermo, puoi rischiare forti allucinazioni, e se i tuoi conti correnti non sono fortemente auto-alimentati la sola alternativa è prendere il più possibile dalle aziende che hai per le mani, svuotandole di ogni energia (il denaro è energia) e di ogni senso di sviluppo.

L’impero dei Ligresti era costruito su basi molto fragili, che potevano funzionare quando al comando c’era una figura come il pater di Paternò, coi suoi modi spicci ed efficaci, e l’indubbia rapidità di testa nel muoversi in un territorio accidentato, fatto principalmente di profili mediocri in cerca di facili guadagni. I figli, in fondo, hanno fatto ciò che non è riuscito a procuratori della Repubblica, guardie, invidiosi e mafiosi di ogni tipo, detrattori e traditori di ogni genere: tagliare le gambe al grande raider. Oggi dell’impero rimane pochissimo, e i guai giudiziari sono tutt’altro che risolti: Salvatore si avvicina agli 85 anni: tutta la famiglia, con l’eccezione della madre, è stata in carcere a più riprese.

I tempi dolci, ora, sono finiti. La maggior parte delle partecipazioni è stata ceduta. I Ligresti sono solo un altro capitolo di storia criminale applicata al grand jeu. E di quella strana giornata ricordo la vacuità del terzo figlio, Paolo, insicuro e borioso, disattento e affamato, quando diceva che voleva convincere suo papà a comprare l’Inter, e interrompeva la nostra conversazione da tavola per rispondere a un importante allenatore di calcio. Se penso a Ligresti, oggi, mi viene in mente un percorso educativo: come esempio da non seguire, nelle business school di domani, a Milano e altrove, sarebbe bello raccontare la triste e veridica storia di un uomo che ha lasciato il mondo (non solo quello degli affari) peggiore di come l’ha trovato.

Quando il capitalismo finanziario e burocratico incontra il familismo amorale, nasce Salvatore Ligresti. Ma come accade sempre in questi casi, puntare il ditino non aiuta a comprendere e migliorare alcunché. La cosa più giusta da fare è chiedersi se un Salvatore Ligresti non alberghi pure in noi, visto che i grandi personaggi dei fumetti e delle mitologie sono sempre condensati di vizi e virtù. Io credo di sì. Ligresti abita in tutte le persone. In me, in te che leggi questo articolo. È un demone, un Pokemon economico, l’avatar che suggerisce lo sfruttamento totale di tutto ciò che si trova lungo la propria strada, con la sola e unica eccezione della propria famiglia. Nella realtà aumentata dei Salvatore Ligresti bisogna salvare solo se stessi e i propri figli, e la moglie, e i cugini, forse. Il resto è un territorio geneticamente distante, possibilmente da bruciare e disossare fino all’ultimo frammento. La pietas è riservata solo ai legami di sangue. Se vogliamo contribuire al bene comune, occorre essere forti e strapparsi di dosso la tentazione di essere Ligresti. il villain che ha costruito la parte sporca della nostra villetta.