Attualità

Rosario, il Clásico dei titani

Storia del derby tra Newell's Old Boys e Rosario Central, meno nobile di quello di Baires ma con una tradizione forse più mitica. Che coinvolge anche Messi e Maradona.

di Fabrizio Gabrielli

Il fremito della retrocessione, in tutte le lingue del mondo, è un fruscio di sibilanti che si rapprende e cristallizza in un’occlusiva bilabiale. B. Un marchio indelebile, una mutazione che in un santiamen si fa mutilazione e che disconosce storia, tradizioni, autorevolezza. Sfregia squadre più e meno blasonate in egual maniera: tanto i millonarios del RiBer Plate quanto i rosarini del Central, Bentral per le ultime tre temporadas. In un calcio come quello argentino, in cui zenit e nadir di ogni campionato sono determinati da calcoli così difficili che bisogna essere bravi nell’algebra prima che col pallone tra i piedi, ogni clásico è dentro o fuori. Inferno o Paradiso. A Rosario, questo, lo sanno tutti. E allora bisognerebbe scalare il Monumento alla Bandiera per vedere di lassù l’effetto che fa, questa sfida tra titani che tornerà a giocarsi, nuovamente e dopo tre lunghi anni d’attesa, il venti ottobre duemilatredici. Newell’s Old Boys contro Central. Il Clásico Rosarino.

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Tutto fuorché giganti in campo nazionale e internazionale, lontane dai fasti aurei dei plurititolati Boca Juniors e River Plate, la titanicità delle compagini rosarine è tutta nei nomi delle platee che calcano a domeniche alterne: Coloso de Parque Independencia, il Newell’s. Gigante de Arroyito, il Central. Oggi lo stadio della società rossonera, nata nel 1903 per onorare la memoria di Isaac Newell fondatore del Collegio Commerciale Anglicano Argentino, è intitolato a Marcelo Bielsa, el loco, prossimo alla santificazione in memoria dei successi raccolti agli albori dei Novanta. Ma per i più accaniti hincha leprosos, lo stadio di Parque Independencia resta sempre “il Coloso”.

Come quella volta in cui, dopo aver perso in Brasile per 4 a 0, il Central riuscì nell’impresa di rifilare quattro reti all’Atletico Mineiro e aggiudicarsi poi ai rigori la finale della Coppa Conmebol del 1995.

Anche il Club Atlético Rosario Central è nato nel 1903. Orgoglio e vanto di ferrovieri, manovali, immigrati soprattutto italiani, l’undici auriazul incrocia i parastinchi con gli avversari sul prato del Gigante de Arroyito, unica cancha autorizzata — insieme al Monumental di Buenos Aires — a ospitare le sfide casalinghe della nazionale albiceleste. Il Gigante, gigante, non lo è poi molto. Per quanto conservi memoria di sfide, quelle sì, di un’epica mastodontica. Come quella volta in cui, dopo aver perso in Brasile per 4 a 0, il Central riuscì nell’impresa di rifilare quattro reti all’Atletico Mineiro e aggiudicarsi poi ai rigori la finale della Coppa Conmebol del 1995. Altri tempi. «Ma il Gigante se lo ricorda ancora, il Gigante non dimentica», assicurano i tifosi canalla. Il carattere della rivalità rosarina è una questione tutta semantica, e di classe. Quel che il Quarto Stato sdrucito chiama, con lo sbigottimento negli occhi, Gigante, per i borghesi del centro è — variante più raffinata — un Colosso.

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Se c’è qualcosa che rende davvero speciale il derby tra Newell’s e Central, quel qualcosa s’annida nei nomi. E soprattutto nei soprannomi. Ci si potrebbe avventurare: le due squadre rosarine sono le uniche al mondo per le quali i nomignoli affettuosi con il quale i tifosi rivendicano la reciproca appartenenza non solo è, per quanto dicotomica, complementare (qualcosa di simile alla contrapposizione Red Devils e Blue Skyes dei due club di Manchester), ma affonda addirittura le radici nello stesso brodo primordiale.

Che canaglie, l’invettiva del Newells. Se ci tenete così tanto, sarà mica perché pure voi siete lebbrosi?, la risposta dei sostenitori del Central. Canaglie. Lebbrosi.

La leggenda parla di un’idea nobile: quella, da parte del Patronato dei Lebbrosi, d’organizzare, agli albori del secolo scorso, un’amichevole benefica per raccogliere fondi a favore dall’Ospedale Carrasco. E d’una risposta inattesa: il rifiuto, da parte del Central, di scendere in campo — tout court o solo per via della presenza del Ñuel, la risposta giace nel melmoso campo della congettura.

Che canaglie, l’invettiva del Newells. Se ci tenete così tanto, sarà mica perché pure voi siete lebbrosi?, la risposta dei sostenitori del Central. Canaglie. Lebbrosi. Canaglie. Lebbrosi. E così a seguire, da cent’anni prima d’oggi e sicuramente oltre. Il fatto è che non si può essere, a Rosario, soltanto rosarini. Come non si può scegliere d’essere, al contempo, indiani e cowboy. A Rosario o sei canaglia, o lebbroso. Forse è per questo che, nell’intera storia del fùtbol argentino, soltanto dodici uomini hanno avuto l’ardire di giocare sia per il Newell’s che per il Central. E soltanto tre sono stati ancor più temerari da farlo nel giro di una stagione. Giusto per farci un’idea, i calciatori che hanno indossato le maglie di Roma e Lazio (derby che per molti versi somiglia al Clásico Rosarino, a partire dal fatto che la posta in palio raramente si spinge oltre la supremazia cittadina) sono almeno il triplo.

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Camminando per le strade di Rosario non è difficile respirare quel sentimento di fanatismo comburente di ogni stracittadina. Si chiama orgoglio. Molti rosarini, della propria città, dicono sia il Paradiso in terra. Il miglior posto al mondo in cui nascere, pascere e crescere, senza doverla lasciare mai. Il potenziale immaginifico di questa terra, culla crocevia e polveriera a un tempo, doveva averlo intuito a suo tempo anche Manuel Belgrano. Belgrano sapeva che ogni rivoluzione ha bisogno di un simbolo visibile e tangibile. Che i sostenitori non chiedono di meglio che colori ai quali votare la propria vita. Per issare per la prima volta la bandiera argentina, il 27 Febbraio del 1812, Belgrano scelse proprio le rive del Paranà, il villaggio che sarebbe diventato, poi, l’attuale Rosario.

Secondo Gerardo el Tata Martino, attuale allenatore del Barcellona e già stella indiscussa del Newell’s Old Boys della Golden Era, quella a cavallo tra il 1990 e il 1992 (un Apertura, un Clausura, un titolo nazionale e una finale di Libertadores persa ai rigori), c’è un motivo per cui Rosario è differente dalle altre città argentine dal punto di vista calcistico, qualcosa che in parte ha a che vedere con l’ambizione degli albori della nazione, in parte con la visione sterminata di chi punta lo sguardo sulle pianure della Pampa Gringa. «In questa zona privilegiata», dice, «circondata dai campi più fertili del paese, crescono ragazzini che sono presto bell’e fatti per giocare al calcio, ma soprattutto decisi più che mai ad affermare — prima di tutto nella squadra cittadina per cui tifano — l’obiettivo di ogni loro sogno fútbolistico».

Senza dimenticare che Rosario è stata snodo per la carriera dei due Diez più celebri d’Argentina, forse del mondo: Leo Messi e Diego Armando Maradona.

Tra i suoi talenti, Belgrano doveva avere quello d’un chiaro spirito visionario nella scelta delle location. Quelle fertili terre hanno visto — e continuano a vedere — nascere, crescere, proliferare e passare simboli dell’argentinità (calcistica e non), a uso interno e pronti per l’esportazione: el Flaco Menotti, Marcelo Bielsa, Gerardo Martino e Mario Kempes, Abel Balbo e Gabriel Batistuta. Ma anche Ernesto Che Guevara, il comico el Negro Olmedo, lo scrittore e illustratore Roberto Fontanarrosa. Senza dimenticare che Rosario è stata snodo per la carriera dei due Diez più celebri d’Argentina, forse del mondo: Leo Messi e Diego Armando Maradona. Simboli, ognuno dei quali ha dovuto (e voluto) imbracciare, imprescindibilmente, un solo vessillo: canallaleproso. È così che si compie l’educazione sentimentale, da queste parti.

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Le due storie più belle sul Clásico rosarino, a ben pensarci, sono quelle che nessuno scrittore o cronista ha mai potuto raccontare. La prima è quella del “meno argentino degli argentini” — nelle parole di Martín Caparros: Leo Messi.

«Belle donne e grandi calciatori, a Rosario», scrive lo scrittore Rafael Bielsa, «nascono come nei vasi le malve».

La pulga è cresciuta col mito del Ñuel (Newell’s, traslitterato à la castigliana). I primi calci l’ha dati a Grandoli, fuori dai quattro boulevard che circoscrivono l’area più chic di Rosario, «a dimostrazione», come dice lo scrittore Rafael Bielsa «che belle donne e grandi calciatori, a Rosario, nascono come nei vasi le malve». Più volte ha dichiarato che prima di abbandonare le scene tornerà a Rosario per indossare la maglia dei leprosos, dismessa a soli tredici anni per trasferirsi a Barcellona. A differenza di Maradona, nel quale l’Argentina battagliera e democratica degli anni Ottanta s’è riconosciuta come davanti a uno specchio, con Messi la Storia è stata meno clemente: a lui è toccato in sorte di scappare dal corralito per assicurarsi una crescita e un’indipendenza lontano dal feng-shui oppressivo e inclemente della sua città natale.

Leonardo Faccio è autore di una biografia di Messi nella quale viene messo a nudo il nervo scoperto della sua rosarinitudine, emozionante fino all’annichilimento. «Ogni ritorno a Las Heras, il quartiere in cui è cresciuto, per Leo equivale sempre a provare un’emozione paralizzante». A Rosario Messi ha voluto si concretizzassero tutti gli eventi più importanti della sua vita: ci ha preso la patente, ci si è fidanzato. Ci abita la mamma. C’è nato il figlio. Il miglior ritratto dello stadio emozionale che lo attanaglia ogni volta che vi fa ritorno è probabilmente il suo volto dopo la sconfitta contro il Brasile nella gara di qualificazione per il mondiale sudafricano, giocata al Gigante de Arroyito il 5 settembre 2009. «Aveva invitato tutti i suoi amici», continua Faccio, «e quella sconfitta è stata sintomatica del suo doppio sforzo infruttuoso: provare a imporsi, con la maglia della nazionale addosso, come leader di tutto un paese cercando allo stesso tempo di rinsaldare, di fronte ai suoi amici rosarini, il ruolo di simbolo che gli stessi gli riconoscono». Per lo scrittore catalano Eduardo Mendoza, semplicemente, «in Argentina — che è un paese molto mitico — bisogna sapersi fare simbolo nel bene o nel male: Maradona, Gardel, il Che, Evita. Bisogna avere una grande ambizione, imbevuta d’un rivolo di tragedia. Il problema di Messi è che lui non è fatto così».

Se per la storia del Messi rosarino le parole sono a malapena sufficienti per scrivere l’incipit, al contrario il romanzo de el Diez per eccellenza si è arenato dopo appena un piccolo, breve capitolo introduttivo. Diego Armando Maradona è arrivato a Rosario esattamente vent’anni fa, per indossare i colori del Newell’s e rimettersi in sesto in vista della Coppa del Mondo statunitense: era il 13 settembre, poco più di una settimana dopo il partidazo perso 0-5 contro la Colombia, poco meno di una settimana prima del Clásico. Un gran colpo di teatro, quello del suo tesseramento. I tifosi leprosos pensavano d’aver così equilibrato il conto, almeno quello, degli eroi calcistici annoverati tra le proprie fila: dalla loro avevano ora il trascinatore del Mundial messicano, così come nel Central, qualche anno prima, aveva lungamente militato il matador dell’apoteosi casalinga del ’78, Mario Kempes. La permanenza del pibe de oro sul prato del Coloso non durò molto, appena cinque partite. E in quel clásico (che finì in parità), malauguratamente, non scese neppure in campo.

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Rafael Bielsa è il fratello di Marcelo el loco, e al suo pari un’istituzione da queste parti. Scrittore, avvocato, è stato Cancelliere nel governo di Nestor Kirchner ed ama, come tutti i rosarini, la propria città. Soprattutto la sua metà rossonera. Anzi, come piace affermare ai leprosos: il suo settantacinque percento. «La rivalità, qua, è di tipo castrense, ispirata al trattato Della guerra di Carl Philipp Gottlieb von Clausewitz. Quando esce il calendario, la prima domanda che si fanno tutti è: quando si gioca il Clásico? Un campionato senza Clásico è come una domenica senza sole».

C’è un ulteriore aspetto per il quale il Clásico rosarino somiglia in maniera inquietante al derby capitolino tra Roma e Lazio, oltre all’irriducibilità dei calciatori — prima che dei tifosi — e alla sfacciata propensione allo sfottò: vale a dire l’esiguità di titoli vinti e di schiaccianti trionfi, di momenti davvero memorabili, per via dei quali sei costretto a mandare a memoria date secondarie elevandole a rango di tappe fondamentali per la creazione cosmogonica. Come il 2 Giugno 1974, ovvero il giorno in cui il Ñuel riuscì a pareggiare contro i cugini del Central — dopo esser stato in svantaggio per due reti a zero — grazie alle prestazioni maiuscole di Santiago Santamaria detto el cucurucho e soprattutto di Mario Zanabria, autore a nove minuti dal termine di un golazo di sinistro che regalò ai rossoneri il primo titolo metropolitano, oltre che la superiorità cittadina.
«A Buenos Aires», dice sempre Bielsa l’altro, «una sconfitta nel derby è più sopportabile perché viene smorzata dalla presenza di grandi edifici, dall’estensione della città, c’è sempre un luogo in cui nascondersi. A Rosario, invece, lo sconfitto non conosce pace: son capaci di venirti a cercare sotto il letto per prenderti per il culo».

Il 19 Dicembre 1971, invece, è una data feticcio per i tifosi del Central, nonché il titolo del racconto di gran lunga più famoso di Roberto Fontanarrosa — autore purtroppo ancora semisconosciuto in Italia, anche tra i più fervidi divoratori di narrativa fútbolistica. È il giorno in cui Rosario ha oscurato, calcisticamente parlando, la capitale bonaerense. Il giorno in cui in trasferta sul campo del River s’è giocato un Clásico Rosarino che valeva la semifinale del Campeonato Nacional.

«Se avessimo perso, da queste parti, qua nel Paranà, ce ne saremmo dovuti andare tutti, milioni di canalla, che ne so, a Diamante, in Perù, a Cuzco, in culo a tua madre, che qua non si sarebbe potuto vivere più, con la carica di quegli stronzi dei lebbrosi, vecchio mio», si legge nel preambolo del racconto fontanarrosiano.

A dieci minuti dal termine di una sfida molto nervosa, Aldo Pedro Poy — che per scongiurare un suo trasferimento lontano dal Central si era dato alla macchia rimanendo per più di una settimana nascosto in un isolotto del Paranà — raccolse a volo d’angelo — colpo che in spagnolo si chiama palomita — un cross dalla destra per regalare ai canalla l’accesso a una finale che, qualche giorno dopo, li avrebbe visti laurearsi campioni.

Quella di Poy è una rete che è rimasta così impressa nelle retine dei tifosi auriazul da ispirare la nascita di un fenomeno spontaneo e quantomeno singolare. Ogni anno, nel giorno dell’anniversario, va in scena — ora al Gigante de Arroyito, ora a Cuba, ora in Uruguay, ovunque capiti — una rievocazione di quel gol storico. Attore protagonista della scena principe, ovviamente, ancora Poy, che senza risparmiarsi — si direbbe quasi, anzi, con un moto d’orgoglio — si presta a questo buffo rito pagano che è stato candidato all’inserimento nel Guinness dei primati come il gol più celebrato al mondo.

Quella di Poy è una rete che è rimasta così impressa da ispirare ogni anno, nel giorno dell’anniversario — ora al Gigante de Arroyito, ora a Cuba, ora in Uruguay, ovunque capiti — una rievocazione.

Ma 1971 di Fontanarrosa non è solo — forse non è per nulla — il racconto di quel celebre gol; Poy è sfumato, resta sullo sfondo. Al centro della scena c’è la passione dei tifosi, e tra loro a spiccare la figura del Vecchio Casale — un Tano Pasman ante litteram —, ottuagenario che non ha mai visto il Central perdere un Clásico e che per questo viene trascinato a Baires — con peripezie degne di un’edulcorata Operazione Eichmann — per essere esibito come feticcio portafortuna. Su quelle gradinate Casale troverà la morte. Come Dixie Dean, il massimo goleador della storia dell’Everton, morto d’infarto mentre al Goodison Park i toffees risolvevano a loro favore il derby del Merseyside.

«Quella [del Vecchio Casale, ndA] è la maniera giusta per morire da canalla! […] È morto saltando, felice, abbracciato ai ragazzi, all’aria aperta, con la gioia d’avergli rotto il culo alla lepra per i secoli dei secoli! Così doveva morire, che addirittura lo invidio, fratello, ti giuro, lo invidio! Perché se uno potesse scegliersi come morire, io sceglierei così, fratello! Io così, scelgo».

Con Fontanarrosa il destino è stato più meschino: ci ha lasciati nel 2007 per le complicazioni di una sclerosi laterale amniotrofica che gli ha tolto, negli ultimi anni di vita, la possibilità di dedicarsi a quanto più amava nella vita: disegnare, scrivere, tifare Central. E vivere i Clásicos roso dall’ansia, girando per le vie deserte come ha raccontato in La observaciòn de los pájaros: «Perché la sconfitta, quando uno la accetta, quando ti si infila sottopelle, invade il corpo come una medicina: amara, sì, ma rilassante, quasi rassegnatoria. Quello che a uno lo distrugge è l’ansia».

Il 20 Ottobre 2013 Rosario tornerà a dividersi in due. Sarà nuovamente festa, colore, luce. Ansia. Il sole tornerà a splendere di domenica. E i tifosi a invecchiare di cinque anni in un pomeriggio. Sugli spalti, immortale come l’icona del Vecchio Casale, a tifare per i canalla — c’è da esser certi — ci sarà anche Fontanarrosa, alla cui memoria questo articolo è dedicato

 

Immagine a cura di Filippo Nicolini