Cultura | Dal numero

The Fiction Machine

I social media uccideranno il romanzo? Una riflessione dell'autore de La vita segreta.

di Andrew O'Hagan

Prima o poi doveva arrivare il giorno in cui la fantascienza ha iniziato a somigliare alla nostalgia. Non che si sia avverato tutto, è che tutto è diventato finto. Chi avrebbe mai immaginato, leggendo William Gibson negli anni ‘80 o i vecchi tascabili di Frank Herbert, di trovarsi di fronte a dei comunissimi realisti, non meno fedeli di Charles Dickens ai cambiamenti essenziali della vita? Ricordo ancora il rito dello spegnimento della tv a fine serata, quando ero bambino. C’era sempre una lotta per farlo, perché la regina era in onda e tutti la odiavano. Non avevamo il telecomando, quindi bisognava avvicinarsi e premere il pulsante: ed eccola, l’ultima esalazione di elettricità statica, e la regina si disintegrava in un piccolo punto bianco. Da quel momento, il mondo veniva tenuto a distanza: il sipario calava sulla Gran Bretagna, a meno che uno non si mettesse a leggere romanzi sotto le coperte, con una torcia. Sono cresciuto in questo modo, tra la tv e i libri della biblioteca: un cerchio perfetto di esperienza privata. Certo, da un punto di vista morale, Robert Louis Stevenson poteva spiarci, così come il nostro dio cattolico – «soltanto Lui sa cosa c’è dentro il tuo cuore», mi diceva padre McLaughlin – ma continuavamo a percepire la privacy come un possesso e un principio fondamentale.

L’altro giorno ho registrato un video con la telecamera del mio computer. Poi sono andato di sopra e ho disattivato la funzione di raccolta dati della tv. Di recente ho subito una serie di cyber-attacchi per via di alcune cose che ho scritto e così, con scarsa fantasia, ho deciso di accogliere il futuro rendendomi meno rintracciabile. Una delle grandi battaglie del ventunesimo secolo sarà quella per la privacy, la proprietà del sé, che poi è anche, nella mia testa, la battaglia per la letteratura, come qualcosa di distinto dal chiacchiericcio dei social media. Gli scrittori prosperano nella privacy, non su Twitter, e lo stesso vale per i lettori. Dare via le proprie frasi senza pensarci, e per giunta gratis, danneggia la scrittura come professione, l’idea di pagare qualcuno perché è bravo a scrivere, e uccide la concentrazione. Oggi siamo tutti intrattenitori, i politici sono teatrali in ogni loro mossa, ma anche gli scrittori a malapena passabili hanno molto da perdere in questo campionato mondiale di stupidità. La letteratura, che include il grande giornalismo, può anche migliorare la sfera pubblica, ma arricchisce soprattutto quella privata, e siamo arrivati al punto in cui la privacy, tutta la storia segreta di una persona, potrebbe essere l’unico mezzo a nostra disposizione per contrastare le forze politiche dominanti. In nome della “sicurezza nazionale” e
dell’“armonia globale”, oggi siamo costretti a diventare dei Winston Smith, spiati dagli altri e da noi stessi. La tv al piano di sotto potrebbe non essere mai davvero “off” ed essere invece “fake-off”, una condizione definita nel giugno 2014 in un programma in congiunzione tra la Cia e il MI5 chiamato “Weeping Angel”. Certi modelli di televisori sono programmati per rimanere accesi, con telecamere operative, e i dati che raccolgono possono essere utilizzati dalle agenzie.

L’assunto, come con la campagna anti-terrorismo “Prevent” in Gran Bretagna, è che chiunque abbia una vita privata abbia qualcosa da nascondere, il che significa che in futuro nessuno potrà aspettarsi il lusso della privacy. Alcune tv e tutti i telefoni funzionano «come una cimice, registrando le conversazioni nella stanza e inviandole tramite internet a un server nascosto della Cia», ha riportato WikiLeaks nei documenti “Weeping Angel”. Essere intercettati a casa propria o fermati e perquisiti in strada, sapere che le proprie informazioni verranno consegnate alle agenzie: sono tutte misure di sicurezza, e metterle in dubbio equivale a dichiararsi un nemico del buon senso, come ha scritto il Daily Mail. Di questi tempi uno non ha bisogno di dimostrare di essere un guerriero della libertà per essere additato come un “liberal elitista”: basta credere nella libertà di parola e di movimento, o schierarsi per un diritto elementare come la sovranità sul proprio pensiero. Un tempo erano diritti inviolabili, recentemente sono state scambiate per le richieste di un potenziale terrorista.

Dickens credeva che i viaggi in treno avrebbero cambiato il significato dell’individualità. Nel 1846 ebbe modo di conoscere George Hudson, il “re della ferrovia”, e cominciò a pensare a questa mania per i motori a vapore, tanto che ne parlò nel romanzo Dombey e figlio. «Proprio in quel periodo», scrisse, «la prima scossa di un terribile terremoto aveva squarciato il sobborgo fino al suo cuore. Segni del suo percorso erano visibili da ogni parte. C’erano centomila forme e strutture incompiute, selvaggiamente mescolate, fuori posto, sottosopra, che affondavano nel terreno, che agognavano l’aria, che marcivano nell’acqua e che erano incomprensibili come i sogni. In poche parole la ferrovia non ancora finita e non ancora funzionante stava procedendo e dal centro stesso di tutto quel terribile disordine, si trascinava avanti, seguendo il corso potente della civilizzazione e dello sviluppo».

Non era soltanto progresso e illuminismo, Dickens ha visto anche il lato oscuro: tutto quel fumo, il rumore, il sovraffollamento delle strade e la fine dell’isolamento bucolico. Risolto il problema della distanza ecco che emergeva il problema della prossimità. Visto dalla prospettiva di chi è nato quando ancora si scrivevano le lettere, internet ha fatto qualcosa di simile. Ha esordito con una promessa utopica: “noi” saremo stati costantemente connessi, avremmo condiviso esperienze e informazioni in tempo reale. Ma non sapevamo che quel “noi” non sarebbe stato un privilegio stabile e che non lo era neanche, come si è visto, l’“io”. Il bello, in quegli anni, stava nella prospettiva che le vecchie istituzioni di potere, che tanto avevano bisogno dei segreti e delle falsità, sarebbero state scosse da una tecnologia potente, che non avrebbe avuto interessi da proteggere.

WikiLeaks e Bitcoin sono stati ideati per mettere sotto pressione il complesso militare-industriale: vi porteremo via i vostri segreti, i nostri computer vi obbligheranno a essere onesti. Tutto questo era legato all’idea di una nuova forma di democrazia: i possessori di computer del mondo avrebbero sottoscritto, ogni giorno e in ogni luogo, una nuova costituzione digitale, condannando la corruzione e garantendo i diritti. Gli hacker avrebbero interrotto il flusso delle menzogne. Ma i guerrieri della libertà dimenticarono che le agenzie avrebbero avuto anche loro dei computer potenti, e degli hacker di Stato e persone che avrebbero difeso le cause del grande capitale. I criminali hanno iniziato a lavorare con internet nel modo in cui prima lavoravano in strada, e – una vecchia storia, questa – gli idealisti hanno ceduto alle cattive compagnie. Donald Trump, quella rappresentazione americana maligna, povera e narcisista di come dev’essere un ricco bianco, può dire «io amo WikiLeaks», e sentirsi più vicino a Putin che a chiunque altro a Washington, raccontare 400 balle in cento giorni, ridere di tutto ciò, twittare altra spazzatura e cancellare tutte le conferenze stampa. È tutto “personale”. Può accusare Obama di sorveglianza, condividere informazioni di sicurezza con i russi, e siamo tutti qui a domandarci come siamo arrivati a questo punto. È stato un golpe libertario? Può essere che gli idealisti, i primi hacker, i geni della disruption siano diventati gli utili idioti di una cospirazione internazionale di destra?

JG Ballard aveva profetizzato che lo scrittore non avrebbe più avuto un ruolo nella società: «Se la realtà esterna è una finzione, non c’è più bisogno di inventare finzioni, è già tutto lì». Ogni giorno sul web vediamo la sua profezia avverarsi, è un mercato di individualità, un mercato del sé

Quando Don DeLillo scrisse L’uomo che cade, dopo l’11 settembre, discussi con lui di come la “realtà” stesse superando la sua visione, anche se in verità stava superando la visione di tutti. Nell’era di Fake Off (il reality dove si ricreano i momenti iconici della cultura pop, ndr) puoi arrivare a percepire fiction e non fiction come indivisibili, e scrittori e lettori non hanno mai goduto di un momento più adatto per esplorare la “verità”. La vita privata, nell’accezione che aveva per Henry James, ha ceduto a internet, il modo in cui guardiamo, siamo guardati e guardiamo noi stessi è legato a doppio filo ai codici digitali. La vita interiore era quello che una persona era dentro di sé, e cogliere le sue alterazioni, riuscire a percepirle, era il lavoro della letteratura. Oggi la vita interiore significa altro: significa chi sei tu dentro il web. Ogni tua mossa, ogni pensiero suggerito dalle tue abitudini di shopping, dai tuoi like, e il modo in cui si intersecano con quelli degli altri, dice qualcosa di te. Le battaglie future si combatteranno per decidere chi prenderà il controllo di questo codice. La vita di Isabel Archer, l’eroina di Henry James, con la sua privacy, i suoi desideri segreti e le sue inibizioni, prende forma attraverso la stratificazione di frasi e paragrafi, di cose dette e non dette, e alla fine crea una persona, un museo di vitalità. Ora però il sé è diventata un’altra cosa. Oggi è più probabile che il sé di una giovane donna di quel genere sia localizzato in una rete neurale.

Se pensiamo ai brevetti di scienze dell’informazione depositati negli ultimi tre anni, vediamo un futuro in cui la privacy non è una questione umana, ma di algoritmi. Tutto era previsto. Nel 2010, in una una conferenza a San Francisco, Mark Zuckerberg disse che «la privacy non è più una norma sociale», e Nick Denton di Gawker stava già parlando per un’intera generazione quando affermò che «ogni violazione della privacy è una sorta di liberazione». Per uno scrittore questa è un invito all’azione. Quando scrivi romanzi sei in un costante stato di produzione: non nel senso che stai sempre a scrivere, ma che ti concentri nella direzione delle storie che sai che puoi scrivere. Ogni giorno esco di casa per trovare delle storie e le storie mi cambiano sempre. Non è qualcosa di cui vantarsi, è solo un’abitudine che alcuni hanno, ma sembra ragionevole pensare che un lavoro del genere possa creare conversazioni, che gli scrittori altrimenti non avrebbero. Al giorno d’oggi mi sento meno come un raccoglitore di notizie e più come un cercatore di attualità, qualcuno per cui le tecniche della narrativa non sono mai estranee e raramente si rivelano inappropriate. Negli ultimi anni mi sono messo a scrivere di persone che abitano in una realtà che hanno costruito per se stessi o che in altri modi si associa alla creazione di un racconto, e mi è stato richiesto di entrare nel loro etere e ballare al loro ritmo per trovare una storia. Quando ero un giovane lettore, imparavo dai poeti a non credere alla realtà: «La realtà è un cliché dal quale scappiamo con la metafora», scriveva Wallace Stevens. Ebbene, i personaggi di internet che ho incontrato per scrivere La vita segreta nella loro vita dipendono da un alto quoziente di artificiosità.

È un’abitudine dei nostri tempi organizzare le ironie tipiche della nostra situazione e chiamarle “cultura” (date un’occhiata ai reality in tv). Considerato quello che abbiamo detto sulla metafora, per lo scrittore creativo potrebbe essere un buon punto di partenza per indagare sulla cultura – che è il motivo per cui faremmo bene, di quando in quando, ad aprire un bloc-notes e accendere il dispositivo di registrazione. Quando gli chiesi quale delle arti fosse secondo lui più vicina alla scrittura, Norman Mailer mi rispose «la recitazione». Parlò dell’essenzialità della perdita dell’ego, una circostanza che la maggior parte delle persone non assocerebbe mai a lui. Un principio che suonerà familiare a quegli autori di fiction e non-fiction sempre alla ricerca di un’altra vita, convinti che il compito dello scrittore sia quello di investire senza limiti nell’auto-trascendenza. Credo che questo sia quello che intendeva Francis Scott Fitzgerald quando disse che non può esistere la biografia affidabile di uno scrittore, perché «uno scrittore, se è bravo, è troppe persone insieme».

Eravamo dipendenti dalle malattie del web molto tempo prima che capissimo come la tecnologia avrebbe cambiato le nostre vite. In un certo senso, ha dato gli strumenti per creare fiction a tutti e in ugual modo, purché avessero accesso a un computer e la volontà di nuotare in quel profondo pozzo dell’alterità che è internet. JG Ballard aveva profetizzato che lo scrittore non avrebbe più avuto un ruolo nella società: «Se la realtà esterna è una finzione, non c’è più bisogno di inventare finzioni, è già tutto lì». Ogni giorno sul web vediamo la sua profezia avverarsi, è un mercato di individualità, un mercato del sé. Con la posta elettronica, ognuno può comunicare istantaneamente e invisibilmente, interpretando se stesso o qualcun altro. Ci sono più di 67 milioni di nomi inventati su Facebook, chiaramente molti di loro vivono un’altra vita meno ordinaria, o comunque meno controllabile. La crittografia ha reso l’utente medio un fantasma – un alias, un simulacro, un riflesso. In questo clima, solo il nostro potere d’acquisto ci rende reali e il nostro essere è sempre aperto a offerte di miglioramento – un nuovo colore degli occhi, una migliore assicurazione, un corpo più snello – dalle aziende di marketing e dalle società di telefonia che raccolgono i dati, che poi li consegnarli ai governi, che a loro volta vogliono renderci più visibili nel nome della sicurezza nazionale. Forse Ballard era troppo pessimista sul ruolo dello scrittore: magari, davanti a queste finzioni, anziché distaccarsene, potrebbe immergersi nel web per scriverne.

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Sono attratto dai problemi della realtà virtuale e trovo che molti di essi siano vecchi quanto la nostra specie. È il fattore umano – la magia del vero sentimento e la grana dell’esperienza vissuta – che la macchina non può conoscere, o non ancora. La ricerca di tutto questo, di fronte a un cambiamento così vasto, mi sembra un lavoro vecchio stile, fino a quando uno è disposto a barattare le certezze con nuove conoscenze. Per circa sei anni mi sono dedicato a scrivere del far west di internet, ed è stato, a volte, come correre attraverso i burroni e le paludi del progresso post-industriale. Abbiamo vissuto l’età di internet prima che arrivassero le polizze o i codici di decenza, le buone maniere o una chiara etica professionale e le nuove disposizioni ontologiche del web stanno diventando una seconda natura. Avrei potuto nuotare nel pantano etico di tutto questo, ma quello che ho trovato sono state le persone.

Il fondatore di WikiLeaks Julian Assange non è una figura tipica dell’era internet più di quanto Charles Foster Kane fosse una figura tipica dell’era dei quotidiani. A me, Assange è sempre sembrato felice di essere una costruzione, tanto inattuabile quanto incoerente. Come il suo amico Trump, è semplicemente troppo narcisista per riconoscere i suoi errori. I sei mesi che ho passato a parlare con lui – o dovrei dire ad ascoltarlo – in una casa sperduta nel Norfolk, dove era effettivamente agli arresti domiciliari, sono stati come essere in compagna di un personaggio creato da Trollope, una di quelle figure tenute insieme da menzogne e rifiuti della realtà, eppure ossessionata dall’idea di costringere tutti ad ammettere la verità. Andando a trovarlo presso l’ambasciata ecuadoriana, sapevo che aveva perso la ragione, infatti le sue buffonate lo hanno dimostrato. Ha sempre odiato Hillary Clinton e ho imparato abbastanza su come funziona la sua testa per sapere che il suo risentimento sarebbe stata la sua rovina. La realtà lo ha superato. Da editore brillante e talentuoso, è diventato un servo di forze che non capisce; odiando la privacy, ma custodendo gelosamente la sua, è diventato per me un ammonimento dei nostri tempi.

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Craig Wright, che ha rivendicato di essere il creatore di Bitcoin, è venuto da me dal nulla, come ha fatto Assange, sostenendo che la fantascienza non è più possibile. «È tutto qui», ha detto. Wright si è rivelato un interlocutore molto eccentrico, sull’avvento della moneta digitale, sulla crisi finanziaria del 2008, e trovavo interessanti, di per sé, i suoi dilemmi interiori. Guardando indietro, sento che Wright ha visto tutta la sua esistenza come qualcosa costruito su internet, e quando ha cercato di uscirne e rivendicare la sua fama, il suo sé si è sgretolato. Lui si vedeva come imperscrutabile e indescrivibile, ma per me era come l’incarnazione digitale di un personaggio di Theodore Dreiser. La privacy non era più da considerarsi una norma sociale, ma questi uomini sono stati perseguitati dalla loro, ed è diventato un compito dello scrittore quello provare a separarli dalla loro persona digitale. Ho passato molto tempo alla ricerca di un uomo chiamato Ronald Pinn, una persona digitale che ho inventato basandomi su un giovane che è morto 30 anni fa, e che ha abbattuto i confini tra la narrativa e non-fiction in modi che sto ancora cercando di afferrare. Ho fatto quello che la polizia fa da anni, ho preso un nome da una lapide e ci ho costruito una “leggenda” intorno. Con il tempo Ronnie è diventato “uomo del momento” ma anche un elemento del giornalismo sperimentale, una persona vera e non vera, intorno a cui le questioni dell’esistenza turbinano come la neve. Ogni uomo e ogni donna sono la loro propria Rosebud, e il web non lo può nascondere.

Forse l’abolizione della privacy ucciderà il romanzo. Ma più probabilmente, come per l’invenzione dei treni o dei razzi o del sesso, lo renderà nuovo. Una delle ricompense dello scrittore è quella di ritrovarsi vivo nei dettagli delle sue storie, e la nuova era di internet fornisce un nuovo parco divertimenti zeppo di provocazioni esistenziali. Nella mia infanzia, la fiera del paese si chiamava “The Shows”, e questo è quello che ho trovato quando sono andato alla ricerca di eroi nella macchina della finzione, personaggi carnevaleschi deformati – dal loro passato, dalle loro ambizioni o illusioni – sotto la grande tenda di internet. In un mondo in cui tutti possono essere chiunque, dove essere reali non è poi così importante, alcuni di noi vogliono tornare a lavorare con i problemi umani, certi che i nostri computer non sono ancora diventati il nostro vero sé. In questa sala degli specchi, non sappiamo riconoscere la nostra immagine riflessa.

 

Dal numero 33 di Studio
Illustrazioni: Giorgio Di Salvo