Attualità

Romanzi Italiani

'Il bambino indaco' di Marco Franzoso e 'Perciò veniamo bene nelle fotografie' di Francesco Targhetta

di Cristiano de Majo

Ho attraversato questa storia fino all’ultima pagina.

Poi non ho smesso di tornarci col pensiero.

Dalla bandella del Bambino indaco firmata da Tiziano Scarpa

 

A proposito di esperienze di lettura: se leggo due libri, uno con grande coinvolgimento, l’altro con iniziale entusiasmo e poi difficoltà e a tratti stanchezza, vuol dire per forza che mi è piaciuto di più il primo? I libri in questione sono, stando alla loro definizione merceologica, due “romanzi” italiani e rispondere alla domanda non è così facile come sembra. Il bambino indaco di Marco Franzoso (Einaudi Stile Libero) e Perciò veniamo bene nelle fotografie di Francesco Targhetta (Isbn edizioni) non hanno praticamente nulla in comune, a parte il fatto di essersi succeduti nella lista delle mie letture e la provenienza geografica dei due autori – il Nordest – che è anche il luogo in cui si svolgono le storie (Treviso, Padova). Per il resto rappresentano due modi opposti di intendere la scrittura narrativa e non solo perché quello di Targhetta è un romanzo in versi.

Il bambino indaco si può definire un thriller psicologico con soluzione iniziale, nel senso che si intuisce dalle prime pagine, per una precisa scelta dell’autore, com’è andata a finire. Ciononostante è un libro in cui si cade a peso morto, con sospensione delle facoltà di giudizio, la classica storia voltapagine a cui abbandonarsi che, molto in breve, è la parabola di una donna incinta contagiata da una distruttiva follia esoterico-naturista (bella intuizione, ho sempre pensato a quel tipo di donna che fa yoga kundalini, beve tisane, mangia cibi biologici e acquista arredamento etnico come a una potenziale assassina) e di suo marito: un uomo senza qualità in bilico – ed è un bilico reso molto bene da Franzoso – tra utopia di felicità e istinto di sopravvivenza. Da un punto di vista archetipico è una specie di Shining rovesciato. Non è il maschio dissolutore, come da tradizione classica, a rappresentare il pericolo per il futuro della specie, ma la madre, una donna straniera, leggiadra e troppo in forma, che profuma di candele aromatizzate. Tuttavia l’eroe non è la controparte maschile ma, in una soluzione che suona sintomaticamente locale, la nonna paterna e suocera, con un bilancio del romanzo che finisce per risultare un po’ banale e fuori tempo massimo, per la serie: le responsabilità che solo le vecchie generazioni sanno prendersi (ma quali? Le stesse delle baby-pensioni e dei rassicuranti stipendi statali? Quelle che hanno dissanguato l’INPS?), poiché in fondo il maschio italiano, specie trenta-quarantenne, resta sempre un inetto, ci pensa la mamma a risolvere i problemi.

Ma a parte questa morale della favola che mi ha fatto un po’ storcere il naso, il romanzo scorre alla grande, è costruito con molto mestiere, è credibile e assolve il suo compito in modo convincente. Si può iscrivere in un filone, che bisognerebbe benedire, di romanzi italiani di pura trama, tentativi più o meno riusciti di scrittori, come Ernesto Aloia e il suo Paesaggio con incendio (minimum fax 2011) per esempio, che sembrano voler colmare la carente tradizione italiana di trame pure, con storie scritte in modo lineare, senza spiegoni sociologici e pretese massimaliste, libri fatti di vicenda e personaggi, che si tengono ben lontani dalla tentazione di dirci come siamo arrivati a questo punto.

Del Bambino indaco si è parlato parecchio in questi tempi. Il romanzo è stato anche oggetto di una polemica a distanza tra Nori e Scarpa, che ha firmato la bandella. Il primo, bacchettando lo scrittore di Stabat mater, ha ravvivato la vecchia diatriba tra trama e lingua, e ha ricordato, citando il passo di un libro precedente, come Franzoso avesse scritto in passato cose molto diverse, con tanto di acrobatiche sperimentazioni linguistiche, collocabili su un polo opposto della scrittura narrativa rispetto al Bambino indaco. Di certo è sempre meglio che uno scrittore cammini lungo il filo di un’evoluzione coerente, se non vuol correre il rischio di essere giudicato inautentico. E leggendo il romanzo di Franzoso può venire il dubbio che il libro sia stato scritto per soddisfare un forte bisogno di rilevanza. Ma il vero problema è semmai racchiuso nella frase di Tiziano Scarpa – “Poi non ho smesso di tornarci col pensiero” – che pur nel contesto di una bandella invitante e profonda e onestamente soggettiva, suona un po’ come l’avvistamento dell’ennesimo capolavoro.

Sono proprio questi i libri a cui non si smette di tornare col pensiero?, mi sono chiesto. Oppure Franzoso ha scritto un romanzo, anche potente, che esaurisce la sua forza nel momento in cui finiamo di leggere l’ultima parola dell’ultima pagina? Esistono esperienze di lettura gratificanti che si consumano nella lettura stessa? Per dire che ho letto il libro di Franzoso con grande coinvolgimento, ma dubito fortemente che un giorno riprenderò il libro di Franzoso per rileggerne qualche pagina; dubito anche molto che continuerò a tornarci col pensiero.

Dall’altro lato, Perciò veniamo bene nelle fotografie, esordio del trentaduenne Francesco Targhetta, romanzo di formazione in versi, incontro impossibile di Andrea Pazienza con Luciano Bianciardi, confezionato con una copertina che lo fa sembrare un disco dei Vampire Weekend. Viene da pensare subito all’Onegin e al meraviglioso Golden Gate di Vikram Seth (Fandango 2008), altri due celebri romanzi in versi e soprattutto Bildungsroman in versi, una forma che evidentemente si presta bene al ritratto generazionale, al tratteggio di un’epoca con il suo carico di speranze e di fallimenti. In questo caso, il nostro presente, una città universitaria italiana (Padova), il precariato intellettuale, le case condivise, l’assenza di futuro.

Definirlo “romanzo” è stato abbastanza azzardato perché in effetti, all’esatto opposto del Bambino indaco, non c’è una storia in cui sprofondare, e non succede quasi niente; il che se è un atto di fedeltà allo spirito che anima i suoi personaggi (“Non si muove nessuno qua, perciò veniamo bene nelle fotografie” sono i versi ripresi dal titolo), d’altra parte costringe il lettore a qualche sacrificio di concentrazione e, in alcuni casi, a veri e propri sforzi di volontà. Se ne ricavano però alcune soddisfazioni. Si attraversano le luci annebbiate dello sprawl veneto. Si sentono gli odori dei letti sfatti nelle case di studenti. Si cammina sui marciapiedi appiccicati di birra. Si avverte l’incombenza dei palazzi grigi. Si masticano merendine e kebab. Si aspetta nelle umide sale prova al suono di qualche cover punk-rock…

Forse sto correndo il rischio di essere scambiato per un promotore di scritture che debbano necessariamente comportare fatica, ed è l’ultima cosa che voglio. Giuro di non essere uno di quei lettori cresciuti nei sottoscala delle avanguardie che si esaltano per degli insiemi caotici e incomprensibili di parole che, quanto più sono caotici e incomprensibili, tanto più giudicano alti. Mi piacerebbe valutare, invece, la persistenza della parola scritta nella nostra memoria, la possibilità – e questo, certo, ha moltissimo a che fare con l’uso che se ne fa – che il testo si trasformi in esperienza; quel “poi non ho smesso di tornarci col pensiero” di cui parla Tiziano Scarpa, che nella mia interpretazione significa ripensare a un libro come qualcosa che abbiamo provato sulla nostra pelle.

Non è questione di stilare classifiche o di attribuire patenti di letterarietà, ma di notare che un libro che abbiamo letto con partecipazione e voglia di sapere come va a finire, potrebbe anche essere uno di quelli di cui ci dimenticheremo più in fretta.