Attualità

Roma era un piacere

Si racconta in un libro l'arredatrice delle case di Agnelli, Von Furstenberg, Hepburn. Istantanee di design dal jet-set di una Roma ormai passata.

di Michele Masneri

Intanto la strada. Via Gregoriana, una delle più nascoste e araldiche della Capitale, una discesa da Trinità dei Monti, con la famosa facciata antropomorfa di palazzo Zuccari, un angolo di Bomarzo nel centro di Roma, ma anche un pezzo di Bagheria, di Mostri, sopra piazza di Spagna (nonché casa di Andrea Sperelli nel Piacere). Location, si direbbe oggi, ultima dello studio Angeletti, e di Anna Laura Angeletti sono uscite in questi giorni le memorie, che si intitolano Inventario con anima (Umberto Allemandi Editore) come una grande tela di Schifano posseduta dall’interior (e non inferior) decorator che, sconosciuta ai più, ha arredato tutte le case di romani e non romani, del cosiddetto jet set di passaggio nella capitale negli anni del Boom. A partire dalla desinenza in A di Agnelli, i “due piani davanti al Quirinale, le stuoie sul pavimento, gli alberi di limone, le opere di Jasper Johns”. In realtà qui si trattò più di qualche complemento: “A Marella ho dato i tavoli di corno che ho visto a New York al Whitney Museum e che avevo fatto rifare da artigiani romani” perché la casa era stata fatta benissimo da un certo Philip Johnson che “ha sfondato il soffitto e ha unito gli ultimi due piani del palazzo”; cioè poi il palazzo Albertini-Carandini, l’indirizzo più liberale e british della città, e “c’erano le finestre della Saint Gobain, senza frames, senza montanti, che scorrevano dentro le pareti” talmente grandi da causare incastramenti di camion sotto certi ponti romani. E quadri: “Giacometti, Balthus, Schifano; un Picasso gigantesco. Una casa speciale, con una bella architettura e i dettagli curati perfettamente, a partire dalle prese elettriche, i telefoni, le porte senza maniglie. Tutto molto pulito”.

Un altro indirizzo mitologico, palazzo Taverna (per i non romani: un castelletto franante con torri e pinnacoli off piazza Navona) dove l’architetta ha per anni una residenza: con vicinanze illustri, la gallerista Graziella Lonardi e la sublime signorina Ivy Compton-Burnett. E poi la marchesa Taverna che “verso le sette di sera scendeva in cortile e si metteva a parlare con dei cardinali in visita”. “Poi arrivava la mamma di Teddy”. Teddy è Teddy Millington-Drake, “a nomad, linguist, bon viveur, aesthete and master gardener, but above all an artist” secondo il necrologio dell’Independent nel 1994. Soprattutto dandy e discendente di Francis Drake, pirata. Con Teddy, Angeletti compie moltissimi viaggi, soprattutto in India, dove i palazzi dei maharaja vengono aperti per l’occasione (il padre di Teddy, storia squisitamente insulare, è stato un fondamentale diplomatico durante la seconda guerra mondiale, famoso per la sua bellezza, per il talento nel controspionaggio e per l’ossessione per il fitness, per cui a Montevideo ai tempi della sua ambasciata si ricordano ancora le ore di ginnastica la mattina alle 7, sul tetto della residenza diplomatica). I Millington-Drake, “a couple of considerable eccentricity” sempre secondo l’Independent, “avevano tre piani a palazzo Taverna avendo lasciato l’Inghilterra per una questione di tasse”. La madre era “minuta, molto cattolica, sempre circondata da preti e cardinali. Sulla terrazza davanti al salone dei ricevimenti aveva dodici gabbie di canarini circondati da teli fatiscenti e rosati per coprirli di notte e farli dormire”.

Teddy beveva molti cocktail e a tavola apparecchiava con l’argenteria appartenuta all’avo pirata. “Vedeva spesso Gore Vidal, Roberto Calasso e Giorgio Franchetti” (e casa Franchetti a Trastevere: “L’ex cereria Pisoni rifatta con colonne di travertino, tipo villa veneta, con davanti grande giardino all’italiana, quadri di Twombly (che sposerà una Franchetti), Pascali, De Dominicis. In una casa Acquarone invece un Balla rivelatosi finto, e soprattutto “Gianni Agnelli sempre con la sua amante ufficiale”; a Palazzo Odescalchi, Gunter Sachs “con una casa con le pareti di plastica, piena di opere d’arte. Sempre a palazzo da Rudi e Consuelo Crespi, massima coppia aspirazionale dell’epoca, “un grande tendone fatto da Mongiardino, che noi chiamavamo circo Barnum”,  e sotto cui avevano ricevuto “gli astronauti che erano andati sulla luna”. E l’immancabile Audrey Hepburn, che imperversava malmostosa in quegli anni a Roma, cui forse per pura cattiveria viene smontato un casone storico ai Parioli (San Valentino) con bagni marmorei pubblicati e studiati all’università, per una casa “veramente My Fair Lady”, con graticci della Rinascente alle pareti e mattonelle da latteria (Audrey girava in bici con vaso di geranio sul cestello, erano le domeniche senza auto della austerità petrolifera; ma “Guttuso arrivava in Mercedes, lui aveva un permesso speciale per ragioni politiche”).

Ma poi non solo jet set, anche naturalmente molto generone. Francesco Caltagirone (ma quale sarà dei tanti?), famoso per non pagare nessuno, “a cui feci una casa a via Orsini e poi una all’Olgiata”, e a Natale riceveva tutti i creditori, come il marchese del Grillo, pagando la metà oppure niente. E un certo Scolastici, industriale del caffè, con una “casa stupenda al’Aventino, una villa fantastica in una via tutta sua”, ma con complessi; portava “fotografie di stanze tutte foderate di boiserie marroni profilate d’oro ritagliate dalla pubblicità della Vecchia Romagna, un brandy allora in voga, e diceva “vorrei un’atmosfera così”; Pasolini che si presenta a studio cercando suggestioni per la sua torre a Chia, vicino Viterbo. E poi tanti concessionari: “A quei tempi le macchine erano ancora uno status symbol, e i concessionari migliori erano ai Parioli, vicino piazza Euclide. Noi ci andavamo anche solo per prendere un aperitivo. Erano posti molto social, luoghi d’incontro molto in”. “I concessionari erano quasi tutti playboy”, come un certo Corsetti che commissiona un décor per un suo scannatoio a Trastevere; ma poi la tigre arancio e nera fatta fare a Franco Angeli a grandezza naturale non piacque per niente.

Non piacquero neanche, fuori del Grande Raccordo, i progetti per Villa Piranha (sic) a Ginevra, residenza della real coppia Vittorio Emanuele e Marina di Savoia, prima della fine degli esilii. Disegnata da Couelle, già artefice della Costa Smeralda, era giustamente una “casa di pietra come quelle di Cala di Volpe, ma in Svizzera!”. Due saloni ad anfiteatro e gradoni di cemento, e “di sotto, in una specie di cantinetta, il principe voleva un mobile-bar particolare, per tirare le freccette. Doveva essere a quadretti bianchi e neri, se si colpiva il nero non si apriva, se si colpiva il bianco c’era un drink a disposizione”. (Il progetto non si fece mai, la decoratrice consigliò di rivolgersi a Salvador Dalì, seria, la real coppia non capì e si offese. In villa c’era anche un poligono di tiro in un tunnel sotterraneo). Intanto a Roma, per una inaugurazione autunnale di Piero Dorazio, Angeletti ebbe l’idea di assoldare un caldarrostaro per strada, a piazza di Spagna, ed era proprio “il vecchio Tredicine”, capostipite degli ambulanti romani, e progenitore di una dynasty di camioncini-ristoro oggi molto discussa, alcuni dei quali bloccano oggi la vista proprio su a Trinità dei Monti, in fondo a via Gregoriana.