Attualità

Soltanto cicale

Ovvero il racconto di una giornata romana d’agosto in cinque movimenti.

di Stefano Ciavatta

 

Pubblichiamo questo racconto di una giornata romana d’agosto – suddiviso in cinque movimenti: cicale, giocattoli, icone smarrite, pappagalli e donne gatto – che si aggiunge a, e in un certo senso completa, la nostra serie di reportage estivi dalle grandi città italiane: Torino, Milano, Napoli e, appunto, Roma.

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CICALE 

Cicale. Soltanto cicale, un tappeto sonoro di cicale, dubstep capitolino. Cicale ovunque sul continente Roma. Cicale nella residenziale Balduina del Sorpasso con i balconi con le chicas che debordano, cicale sui civici assolati della Tiburtina e niente più file per il casting del Grande Fratello, cicale sopra i ballatoi di borgata nel Trullo ridipinto dai Poeti. Cicale sulla chiesa ortodossa russa, abbarbicata dietro la stazione di San Pietro che sembra la casa di un maraja: bianca, oro e  acquamarina. Ci sono mille chiese a Roma, poi dicono che siamo una città in ginocchio. Una fede, un culto come giri l’angolo, anche laico, basta che ci sia un idolo disponibile, un cucina per esempio – e infatti poco sotto la chiesa russa c’è un remoto ristorante molisano, finito lì come un asteroide. Cicale pure a Talenti sopra l’insegna gigante dello Zio d’America, una sorta di autogrill ma di lusso, ex tempio delle colazioni.

A soffiare sulla spietata sinfonia sudaticcia stanno l’asfalto, le macchine e gli scarichi dei milioni di condizionatori

Le cicale battono il tempo della savana, anche 40° gradi, la cosidetta callara, un incubo puntuale e assassino di ogni voglia di fare e di ogni gioia di stare al mondo. A soffiare sulla spietata sinfonia sudaticcia stanno l’asfalto, le macchine e gli scarichi dei milioni di condizionatori, sponsor delle radio locali sportive ai tempi degli scudetti di Mancini e Totti. Ogni tanto affiora l’eco di un film, di quelli a memoria, da valigia dei sogni: l’urlo affannato di Mimmo “marisol, marisol, marisol”, la desolazione di un’agendina vuota di numeri “Olimpico Stadio – Stadio Olimpico”, la noia in kimono di Manuel Fantoni. Ci prova anche qualche libro: un pianerottolo di Piperno, un frullato di Ammaniti, un’edicola di Trevi. Paginette sofisticate, in punta di piedi, piccoli miti tascabili che provano ad arrampicarsi sull’estate romana e a restarci per sempre. Tutto però viene inghiottito dalle cicale che non hanno a cuore nulla, salvo annunciare il caldo.

GIOCATTOLI 

Una volta timbrato qualsiasi cartellino la mattina è un lento apprendistato all’una. Ci si muove piano come i gatti, e visto che la mattina è di tutti c’è un po’ di clemenza generale. Però ci si muove sempre da soli, la solidarietà umana dura fino al numeretto, come dentro a una sala d’attesa, poi si schizza via uno per volta, come Ulisse fuori dalla caverna del Ciclope. Devo attraversare la città per andare a trovare mio padre ricoverato in una clinica per Alzheimer. Orari da galera, una manciata di ore al giorno, porte bloccate per evitare fughe – lo chiamano wandering, basta una vocale e cambia il mondo e finisce la meraviglia – stanze spartane. E poi i corridoi popolati di uomini e donne di mezza età, in processione sui corrimani attaccati alle pareti. Sembra una fabbrica giocattoli impazziti. Una signora legata spinge la sedia a scatti, ogni scatto muove un centimetro, un signore gira per letti e li prova tutti. Sono persone che hanno perso la percezione del mondo, è teatro patologico sul serio, non un saggio di scuola. Sono memorie intaccate che continuano a sfilare con tenacia per il corridoio – e tutto questo un neurone neanche lo immagina. Guardo la faccia sconsacrata di mio padre, in attesa utopistica che si restauri una cerimonia, percepisco discorsi monchi, frasi smozzicate, echi di una complessità di una vita che fu. Qualcuno naif direbbe che in questi lampi c’è della poesia ma ci ha pensato Oliver Sacks a spiegare che non c’è poesia nello scambiare la moglie per un cappello. Nella città dei palazzinari, in questo lungo corridoio poco oltre il Raccordo, si consuma un’enorme speculazione neuronale. Qui tutto è vago, grossolano, impreciso, mentre la vita, così come Roma, avrebbe bisogno di maggiore scienza.

 

cicale

ICONE SMARRITE

La cultura ci salverà, si dice sempre. Cerco dei libri da Feltrinelli per arginare la crepa, so già che sono fuori catalogo -ormai basta poco per precipitare dagli scaffali computerizzati – ma li chiedo lo stesso al commesso per provare a farlo sentire in colpa. Il catalogo, la mappa delle letture, è diventato invisibile in libreria. Connessioni, passaggi obbligati, scommesse, fraintendimenti: è impossibile recuperare una mappa del genere. Se cerco la Miami degli esuli cubani di Joan Didion potrei portare a casa anche le cucine londinesi ai tempi di Blair raccontate da Will Self e di lì prendere pure le passeggiate per le strade di Berlino di Siegfried Krakauer. Potremmo leggere di tutto ma siamo finiti fuori catalogo, la scrittura stessa è diventata a memoria zero. Rimane in giro un’idea un po’ estemporanea e narcisa, sono le liste personali. Il catalogo invece è una questione di fiducia nel mondo, di reciproco aiuto, vorrei dire di memoria se non avessi imparato a detestare questa parola. Mentre aspetto il responso del libraio guardo in su.

Ci sono alcune Feltrinelli sparse per Roma che mantengono ancora pezzi del restyling anni 90: pareti e vetrine composte da volti di scrittori, artisti, intellettuali, una specie di pantheon pop all’italiana – idoli stranieri compresi – come i santi di una grande chiesa alla Jovanotti, dove Enzo Biagi – l’incubo di tutte le librerie dell’usato del Regno d’Italia – sta accanto a 50 cent, Giorgia canta e Dr House ascolta, Manu Chao sorride alle occhiaie della Magnani, il volto corrucciato del filosofo Galimberti osserva le labbra viola di Carmen Consoli, la faccetta sparuta di Banana Yoshimoto e il profilo pensoso dell’eccellenza Renzo Piano, Laura Morante che sembra una first lady e Stephen King tutto lenti da miope, ma ricordo pure Carlo Verdone e Toscani sorridenti e giganti accanto ai francobolli di Mishima e Goethe. Sembrano facce d’antiquariato, neanche vintage perché troppo vicine, mettono anche un po’ di imbarazzo. Dell’entusiasmo degli inizi nei pannelli è rimasta solo una sensazione naif come l’esuberanza di Marilyn Monroe con la bocca spalancata.

Roma un Pantheon già ce l’ha ed è bucato, ci piove dentro, come la memoria di questa città ridotta una fontana sfasciata

Roma un Pantheon già ce l’ha ed è bucato, ci piove dentro, come la memoria di questa città ridotta una fontana sfasciata che fa acqua da tutte le parti. Ma questo non scoraggia nessuno: lo scaffale “Roma” è pieno di guide per consumare cose però nessuna guida ti dice come venire consumati da Roma e quindi spiazzati e bruciati. Questa sovraesposizione è come soffocare una strada con la cartellonistica, significa trasformarla in un parcheggio, mentre una città per andare oltre le solite combinazioni ha bisogno di scavalcare se stessa e allora la citazione di aforismi, ricette, aneddoti non basta perché la citazione è sempre un sentimento raggelato, non c’è partecipazione né disperazione.

Bisogna andare là fuori, tra le cicale, che non sono le lucciole di Pasolini, e meno male. Ricominciare a vivere prima di scrivere, diventare piccoli e anonimi, togliersi dal catasto degli addetti ai lavori con l’obbligo di firma sulle cose, mettersi in fila sotto il suono delle cicale. Cicale allora, sul lussureggiante quartiere Trieste, sulle scale e le terrazze e i marmi del Forlanini a Monteverde che sembra la reggia di Caserta invece è un’ospedale abbandonato, cicale sugli sfasci del nostro scontento alla Magliana vecchia.

PAPPAGALLI

Sui marciapiedi sta pure la fauna di creature abbagliate da questa Roma a 40 gradi. Mosche da bar, nevrotici, urlatori, gente che fruga nei cassonetti, che si impiccia di qualsiasi cosa, che chiude gli specchietti delle macchine, e poi ambulanti e robivecchi dalla parlantina confidenziale, e l’esercito in licenza di perditempo, flaneur in canotta, traffichini, fricchettoni, ex galeotti tatuati, spacciatori riconvertiti in padroncini, tutti insieme fenomeni, o come dice il dizionario romano, “attrezzi”, una cosa a metà tra l’efficiente autonomo e la solitudine del marginale. E infatti la domanda è: ma dove stavano d’inverno? Sono i giardinieri improvvisati di questa città scorticata e selvaggia. Variopinti, come i pappagalli tropicali liberati al parco della Caffarella e nelle ville maggiori ma pure sulle palme di piazza Risorgimento, sulla rambla di viale Marconi, sopra la testa di Paolo Sorrentino mentre ha girato “The Young Pope”. Del resto Roma è “una jungla tiepida, tranquilla, ci si nasconde bene” diceva Mastroianni.

E infatti dalle sette in poi in città calano altri pappagalli. E’ l’ora in cui le truppe dei turisti planano sfatte e ciabattanti in zona aperitivo mentre Roma sta in spiaggia per il saluto al sole. Ad aspettarli ci sono i pischelli del rimorchio, i pappagalli, o come si definiscono loro, gli “esterosessuali”. La formula dell’acchiappo sicuro risale agli Sessanta: “abbordaggio uguale temperatura ambiente per velocità per un coefficiente effe del fascino della persona diviso la frazione di secondo”. La colonia di pappagalli costituisce un’ideale associazione no profit, tutta edonista con un pizzico di odio di sé perché “le zone predilette sono quelle che il pappagallo più odia vale a dire il  centro storico, Trastevere e Monti”.  Nonostante Mafia capitale e Roma fa schifo, il pappagallo resiste, s’accontenta e gode. A volte raccoglie grandi imprese – “giuro che era la nipote di Colgate” – a volte inventa, sposta monumenti e luoghi, “un giorno davanti alla Biblioteca Nazionale chiusa mi ha chiesto cosa fosse, le ho risposto che c’era la Stele di Rosetta”. Poi arriva l’ora in cui i pappagalli finiscono di essere simpatico folklore e finalmente addentano. Intanto a Roma è scesa la sera.

DONNA GATTO

È mezzanotte. Sopra l’eco delle note dell’Opera, sopra le nozze di Figaro, persino sopra Bob Dylan, sopra tutto il cartellone di Caracalla, sta seduta sul suo trono  – fatto da un tronco d’albero – sua maestà Catwoman. Ha una maschera nera, da donna gatto, rossetto rosso, stivali e reggiseno di pelle, e una linea bianca dell’abbronzatura che sembra scolpita intorno ai fianchi. Quando passi le basta un attimo, le mani con i guanti allargano le cosce e mostrano un monumento -l’ennesimo di Roma – che pende in cerca di fedeli. Catwoman è uno dei tanti trans che affollano da vent’anni la zona di San Saba, appena sopra il Circo Massimo: esistesse l’usucapione del vizio gli spetterebbe un villino ciascuno. Dove sarà la casa di Catwoman? Saranno gli alveari di Due Ponti dove morì Brenda o le case a tre piani di Centocelle con i nomi di rose e mirti? Saranno i pini che bucano l’asfalto, terrore delle coppe dell’olio nelle enclave di Pirzio Biroli o le palazzine sperdute di Ponte di Nona? Saranno i terrazzini con le infradito sporche di sabbia a Casalpalocco o gli scannatoi della Nomentana safada? Saranno altri punti lontanissimi tra loro dello Zodiaco romano? Ovunque sia, quando Catwoman torna a casa, c’è sempre una Roma immensa – fatta di feste, appartamenti infrattamenti – che la donna gatto si porta appresso e un’altra – quella di chi non ha ancora bussato – che viene scansata, per il momento.

E si va giù giù fino alla rotonda di Ostia, fino al pontile, le colonne d’ercole di Roma, il punto massimo dove l’elastico della città si tira fino a spezzarsi, allora ci si adagia, finiscono le traversate, le notti tirate a lucido con i “fianchi pettinati” come diceva Califano, finisce tutta la prosopopea romana, si vola bassi. Qui a Ostia finalmente finisce Roma con i suoi giocattoli impazziti, le icone smarrite, i pappagalli e le donne gatto. Ed è giusto, che finisca per davvero, e rincuora il fatto che finisca. Basta succursali, appendici, colonie. Soltanto cicale.

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(Fotografie di Scott Olson/Getty Images)